Pagina:Della Porta - Le commedie I.djvu/303

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atto quinto 293


Gerasto. ... Ascolta, di grazia. ...

Santina. Non vo’ ascoltare, so che vuoi dire.

Gerasto. ... Anzi men sai che voglio dire, né imaginartelo puoi giamai. ...

Santina. Forse il giardinetto cominciava a spuntar fuori l’erbe piccine?

Gerasto. ... Che erbe piccine? anzi, mi diè tra mano..., mi vergogno dirtelo.

Santina. Ti dovevi vergognar di farlo.

Gerasto. ... Dico ch’era piú maschio ch’io, tanto maschio che n’aresti fatto tre maschi.

Nepita. Se fussi gravida, mi sgravidarei: l’ha narrato con tanto sapore che m’ha fatto venir la saliva in bocca.

Santina. Oimè, che dici?

Gerasto. Quanto ascolti.

Nepita. Alfin, tu serai stata la ruffiana a tua figlia, ché la tenevi in gelosia sempre serrata con lei.

Santina. Ahi, che mirandola oggi in fronte gli leggeva il commesso peccato! Ma chi avesse potuto pensar questo? Infelice me, disgraziata me!

Gerasto. Taci e fa’ rumor manco che puoi, acciò le corne che avemo nascoste in seno, non ce le ponghiamo in fronte, e altri imparino a nostre spese. Egli m’ha detto che è gentiluomo genovese di Fregosi, e si contenta star prigione finché si pigli informazione di lui; e se è vero, se gli dii per moglie, perché ella, non men che lui, lo desidera ardentemente.

Nepita. Credetelo, ché è cosí; perché dicea mia madre che queste radici han gran virtú di farsi amar dalle donne.

Gerasto. Taci, vattene a casa. Io l’ho serrato qui dentro; or andrò a certi gentiluomini genovesi miei amici e mi informerò di lui con molta destrezza.