Pagina:Della Porta - Le commedie I.djvu/309

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atto quinto 299


Panurgo. Usando buon ufficio a te, l’usava male a lui. Che ragion voleva che avessi lasciato di servire il padrone che l’amo, per servir te che non so chi sii?

Gerasto. Mi risponde da filosofo: or non ti par egli un Socrate?

Narticoforo. (Certo che non è uomo dozzinale. La forza della virtú è cosí grande che passa anche ne’ nemici). Se ben io son stato lacessito d’ingiurie da te, il tutto ti condono.

SCENA VIII.

Apollione, Gerasto, Narticoforo, Panurgo.

Apollione. (Mi dicono tutti che abita qui d’intorno. Forse costoro me ne sapranno dar novella). Gentiluomini, mi sapreste dar voi nuova di Gerasto di Guardati?

Gerasto. Niuno ve ne può dar piú certa nuova di me, perché io son detto. Ma che volete da me?

Apollione. Saper solo se in casa vostra fusse una fantesca chiamata Fioretta, che son tre anni che si partí di casa mia.

Gerasto. Chi sète voi che me ne dimandate?

Apollione. Son Apollione de Fregosi suo zio, che vo tre anni disperso per averne novella.

Gerasto. Certo avete una nipote molto onorata e da bene!

Apollione. Tutto è per vostra cortesia, ché, stando in casa onorata come la vostra, stava sicuro che contagione di pessimi costumi non l’arrebbono corrotta.

Gerasto. Ditemi, di grazia, il vero — ché confidando nella bontá, che mi par conoscere nell’aria vostra, voglio crederlo, — di che qualitá è questa vostra nipote?

Apollione. Se ben l’uomo deve sempre dir il vero, mi par pur gran sfacciataggine dir una bugia che potrá esser facilmente scoverta, essendo qui infiniti gentiluomini genovesi che ve ne potranno chiarire. Suo padre e io siamo fratelli, di patria genovesi, della famiglia di Fregosi, che per negozi appertinenti a Stato, quando si fe’ l’aggregazion di nobili in Genova, fummo