Pagina:Della Porta - Le commedie I.djvu/310

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300 la fantesca

sbanditi. Mio fratello con taglia di tremila ducati se ne fuggí; e son quindici anni che non se ne intese piú novella se sia vivo o morto. Giá sono accommodate le cose della patria molti anni sono; e io cercando di lui, venni con la casa in Roma; e per un mal serviggio promettendo io di battere mia nipote, questa si partí di casa tre anni sono, che non ne ho inteso piú nulla se non pochi mesi sono, che era in Napoli in casa vostra. Onde partitomi di Roma, son qui venuto per saperne novella.

Gerasto. Come è suo nome, e del padre?

Apollione. Suo nome Essandro, suo padre Carisio, io Apollione; e se ben perdemmo in quel conflitto molte robbe, pur non siamo tanto poveri che in casa nostra non sieno trentamila ducati.

Panurgo. O fratello carissimo, Apollione desiato sí lungo tempo di rivedere! benedetti questi legami di carcere e le disgrazie, poiché in esse mi tocca di rivederti!

Apollione. Tu dunque sei Carisio mio fratello? o che dolcezza è questa! sogno io o vaneggio?

Gerasto. Ah, ah, ah!

Narticoforo. Ah, ah, ah! certo che sogni e vaneggi.

Apollione. Per che cagione?

Gerasto. Questi che voi non conoscete, si trasforma in qualunque uomo ei vede: per uscir dall’intrigo dove adesso si ritrova, subito s’ha finto tuo fratello.

Apollione. Ogniun crede facilmente quel che desia: il desiderio immenso di trovar mio fratello me lo fe’ subito credere.

Panurgo. Deh, Apollione mio caro, non mi raffiguri tu ancora? ha potuto tanto l’assenza ch’abbi posto in oblio la mia conoscenza?

Gerasto. Oh, vedete come piange, vedete che lagrime spesse!

Narticoforo. Se fusse donna, non arebbe cosí le lagrime a sua posta.

Apollione. Veramente or ti raffiguro, fratello: perdonami se prima non son venuto a far il debito ufficio ch’io doveva.

Gerasto. Férmati, ché tu proprio desii d’essere ingannato.