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356 la tabernaria


Limoforo. È troppo gran miseria viver senza speranza di consòlo.

Lardone. Però son discontento e ne disgrazio tutti i consòli.

Limoforo. Non pianger dunque.

Lardone. Piango per sfogar la mia disgrazia e per morire.

Limoforo. Meglio è che ti consoli da te stesso che esser consolato da altri: abbi pazienza.

Lardone. La pazienza non è rimedio da far passar la fame.

Antifilo. (La fame? non sará altri che Lardone). O Lardone!

Lardone. Mai fui manco Lardone che ora: è scolato il grasso e ci è rimasta a pena la cotica.

Antifilo. Se non sei Lardone, sarai lo spirito suo.

Lardone. E il spirito è quello che ti risponde, ché il corpo è giá morto.

Antifilo. Che cosa è del maestro?

Lardone. Eccolo qui in carne e ossa.

Antifilo. Sète qui voi, o mio caro maestro?

Pedante. Ille ego, qui quondam... .

Antifilo. E voi sète il mio maestro?

Pedante. Ipse ego, ipsissimus sum: io son quello che voi volete, absumpto nel pelago delle miserie.

Antifilo. Oh quanto ho desiderato di servirvi! Come a questa ora di notte vi veggio in questa disgrazia?

Pedante. Anzi per mia grazia disgraziato, o optatissimo Antifilo.

Limoforo. Non vi disperate; ché mai viene disgrazia che non trovi la porta aperta per la grazia che segue.

Pedante. Mi son partito da Salerno con sinisterrimo auspicio Romam versus, per far quivi stupir il mondo della prestanza della latina e greca lingua. ...

Lardone. Val piú un bicchiero di vin latino o greco che tutta la tua dottrina.

Pedante. ... E da Cicerone in qua non è stato maggior uomo che sono io. Oh quanto perde Roma e l’Italia tutta, se si perde un par mio.

Antifilo. Maestro, potete venir a dormir e cenar meco.