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atto terzo 57

corona di signori e di cavalieri spettatori, che mi dessero poi quello applauso che merito, e rendessero la mia vittoria piú famosa. Poi, per non esser la sua profession d’armi, vo’ che ceda l’impeto dell’ira alla ragione e alla nobiltá della mia creanza: gli vo’ far conoscere che son vero nobile, e cosí vo’ vivere e morire, però non voglio competere altamente con lui.

Trinca. Ah, capitan valoroso, cosí vi fate fuggire di mano un’occasion di farvi illustre? non saresti un pusillanimo, se schivaste un cosí onorato pericolo?

Trasimaco. Vien qua tu; è vero che hai detto mal di me? ché vo’ farti in mille pezzi, ti guasterò tutto.

Gulone. Sí, che è vero.

Trasimaco. Or, poiché hai confessato il vero, ti vo’ perdonare. Tristo te, se me dicevi la bugia, tanto m’è nemica.

Gulone. Io voglio dir di nuovo mal di te.

Trasimaco. Fatti in lá che non lo senta, ché non me ne curo.

Gulone. Io vo’ che tu lo senta.

Trasimaco. Tu mi vai punzecchiando e mi offendi troppo indiscretamente: non lo comporterò, cancaro!

Gulone. Ti venga a mente come m’hai disfidato: e son rissoluto uccidermi teco.

Trasimaco. Arcitonante Giove, che audacia è la tua? Tu mi fai inserpentire, inantropofagare, improcustire, inneronire: con un sgraffio ti sconquasserò tutto, ti sganghererò le mascelle e i denti, che non potrai piú mangiare.

Gulone. Ed io quella lingua, che non potrai dir bugie.

Trasimaco. Ti sminuzzerò le braccia, che non ti potrai piú imboccare.

Gulone. Ti romperò quella testa busa, priva di cervello, che non vi nascano tanti grilli.

Trasimaco. Ti torcerò quel collo, che non dará tanta briga al manigoldo, quando ti ará a strozzare: cosí non divorerai tante panelle, ché hai fatto carestia alle botteghe.

Gulone. O che manigoldo amorevole, o che franca lancia.

Trasimaco. O che franca pancia. Ti farò dir altamente, quando ti vedrai intorno questo fianco di balovardo...