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atto quarto 275


Panimbolo. Don Ignazio è di spiriti ardenti: non ará indugiato fin adesso farli intendere che piú non l’accetta per isposa.

Don Flaminio. L’animo mio teme e spera: spera nel timore e teme nella speranza. Se ben desio Leccardo ché mi porti felici novelle, pur temo qualche sinistro successo: vorrei venisse presto, ché ogni indugio mi potrebbe apportar danno.

Panimbolo. Ecco s’apre la porta e ne vien fuori.

SCENA V.

Leccardo, don Flaminio, Panimbolo.

Leccardo. (Se mi fussero stati posti innanzi galli d’India cotti senza esser impillottati, caponi duri, brodo macro e freddo, non arei potuto aver maggior dispetto di quel che ho avuto quando viddi morta Carizia. Oh come intesi darmi colpi mortali allo stomaco e alla gola! Veggio don Flaminio molto gioioso; ma diverrá subbito doglioso come saprá quanto sia per dirgli).

Don Flaminio. Leccardo mio, i segni di mestizia che porti scolpiti nel fronte mi dán segno d’infelice novella: parla con la possibil brevitá. Oimè, tu taci e par che col tuo silenzio vogli significar qualche sinistro accidente!

Leccardo. (Desia saper quello che li dispiacerá d’averlo saputo; ma vo’ meno amareggiarlo al possibile).

Don Flaminio. Deh, comincia presto!

Leccardo. Di grazia, portami al monte di Somma, dove nasce quella benedetta lacrima che bevendola ti fa lacrimare, acciò bevendone assai possa lacrimar tanto che basti, ché or mi stanno gli occhi asciutti come un corno.

Don Flaminio. (Col tardar piú m’accresce il sospetto).

Leccardo. Oimè, quella faccia piú bianca d’una ricotta, quelle guancie piú vermiglie di vin cerasolo, e quei labrucci piú cremesin d’un presciutto, quella... , ahi! che mi scoppia il core, ...

Don Flaminio. Che cosa? sta male?

Leccardo. Peggio!