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278 gli duoi fratelli rivali


Don Flaminio. Non è stata tanto la mala fortuna quanto il tuo cattivo consiglio; né in cose disconvenevoli dovevi tu prestarmi consiglio né agiuto.

Panimbolo. Voi che mi avete sforzato con tanti comandi m’accusate contro ragione. Ma chi può gir contro il cielo? Ed essendo il mondo cosí sregolato e insconsigliato, con che ragione o consiglio potete regolarvi con lui? Non conoscete, come umana creatura, che tutte le cose son instabili e incerte e che il mondo inchina or ad una e or ad un’altra parte? E l’uomo accorto nella necessitá de’ pericoli deve accomodar l’animo suo alla prudenza; ma la nobiltá del vostro sangue dovrebbe destar in voi l’ardire e farsa caminar nel termine della modestia, soffrir e conservar voi stesso a piú liete speranze.

Don Flaminio. Io non temo piú i colpi della fortuna, ché è morta ogni fortuna per me: non bisogna piú ordir fraudi e inganni; non ho piú sospetto di niuno, poiché è morta la cagion di tutte queste cose. Ahi, che pena converrebbe al mio fallo? Mi conosco degno di maggior pena che la morte: bisognaria che morisse d’una morte che mai finisse. Ma prima che morisse, desiderarei restituir l’onor che l’ho tolto, e scoprir l’inganno che l’ho fatto.

Panimbolo. Ecco il vostro fratello che viene a voi.

SCENA VI.

Don Ignazio, don Flaminio.

Don Ignazio. (Veggio don Flaminio assai doloroso).

Don Flaminio. Don Ignazio — ché al tradimento che v’ho fatto, non son degno d’esservi né di chiamarvi fratello, — vengo a voi ad accusar il mio fallo: io son quello iniquo che avanzo d’iniquitá tutti gli uomini.

Don Ignazio. Fratello, che aspetto pallido è il vostro! che pianto, che parole son queste che intendo da voi!

Don Flaminio. Io son quello che a torto ho accusato appo voi quella donna celeste, il cui corpo fu tanto bello che non si vidde mai cosa tale.