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294 gli duoi fratelli rivali


Don Ignazio. Dite presto, madre, che sète per dire.

Polisena. Che voce potrá formar la mia lingua tutta piena d’orrore e di spavento, veggendovi con l’armi in mano e che state di ponto in ponto per ferirvi? Almeno ponete le punte in terra, e colui che sará primo a inclinar la spada dará primo testimonio dell’amor che mi porta.

Don Ignazio. Ecco ch’io v’obedisco.

Don Flaminio. Ed io pur voglio obedirvi.

Polisena. Don Ignazio, di che cosa vi dolete del fratello?

Don Ignazio. Egli, senza averlo giamai offeso, tradendomi, mi ha tolto il mio core che era la Carizia; la qual essendo morta, son certo che mai morirá nel mio core quella imagine che prima Amor vi scolpí di sua mano, né spero vederla piú in questo mondo se non vestita di bella luce innanzi a Dio. Per non morirmi di passione avea pensato tôrmi la sorella per isposa, la qual sempre che avesse veduta avrei veduto in lei l'imagine sua e gustato l’odor del sangue e del suo spirito. Or ei, cagion di tanto male, mi vuol tôr la seconda: io che ho oprato bene ricevo male, ed egli che ha oprato male sará guiderdonato.

Don Flaminio. Egli cerca tôr a me Calidora concessami dal padre e dal mio zio, della qual sono acceso talmente che sarò piú tosto per lasciar la vita che lei. L’amor mio non è degli ordinari, ma insopportabile, inmedicabile, non vuol ragione.

Polisena. Se amavate Carizia, com’or amate Calidora?

Don Flaminio. Non potendo amar quella che è morta, l’anima mia si è nuovamente invaghita di costei.

Polisena. Or poiché l’amate tanto, vostra sia; e farò che don Ignazio ve la conceda.

Don Flaminio. Con una medicina mi sanarete due infermitá, di amore e di gelosia; e vi arò sempre obligo delle due vite che mi donate.

Don Ignazio. O madre, non vi promettete tanto di me, ché ancorch’io volessi non potrei.

Polisena. Ben potreste, sí.