Pagina:Della consolazione della filosofia.djvu/21

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giorno alcuno, che tu non istillassi nelle orecchie e pensier miei quella sentenza di Pittagora: a uno, e non a più; cioè non doversi sacrificare se non a un Dio solo: nè era convenevole che io andassi gli ajuti di sì vili spiriti mendicando, avendo te, la quale a tanta eccellenza m’innalzavi, che mi facevi somigliantissimo a Dio: oltrachè i segreti luoghi della mia casa, dove innocentemente colla mia donna viveva, e la moltitudine di tanti amici e così da bene, e di più Simmaco mio suocero, uomo egualmente d’entro santo e di fuori reverendo, mi liberano da ogni sospetto di cotale sceleratezza. Ma, oh ribalderia! essi prendono fede di tanto peccato, e credono questo di me per cagione tua, pensando che io, essendo informato de’ tuoi costumi e ammaestrato nelle tue discipline, non debba essere lontano da così fatto malifizio. Onde non basta che la riverenza, che ti si dovrebbe avere, non mi abbia giovato cosa nessuna, ma tu ancora sei spontaneamente con esso meco e per mia cagione infamata e maledetta. A questi miei mali se ne aggiugne un altro, che gli uomini per lo più non istimano le cose secondo il valore e merito loro, ma secondo il successo e avvenimento della ventura, e solo quelle giudicano essere state ben fatte e con prudenza, le quali sono riuscite felicemente; e di qui nasce, che la prima cosa che abbandoni coloro i quali caggiono in miseria, è la riputazione. Io non posso ricordarmi senza rincrescimento e fastidio grande quali debbano ora essere i cicalamenti del popolo sopra i fatti miei, quanti e quanto diversi e discordanti i pareri. Questo