che chiamasi volgo, quando vegga che dopo sì lungo tempo da che dormo nel silenzio della dimenticanza, ora che ho tant’anni in groppa[1], esco fuori con una leggenda secca come un giunco marino, spoglia d’invenzione, misera di stile, scarsa di concetti, mancante di ogni erudizione e dottrina, senza postille al margine, e senz’annotazioni al fine del libro, di che vedo ricche le altre opere, tuttochè favolose e profane, e zeppe di sentenze di Aristotele, di Platone, e di tutto lo sciame dei filosofi, onde ne avviene che restano meravigliati i lettori, e tengono gli autori nel più gran conto di dottrina, di erudizione, di eloquenza? Citando la divina Scrittura si fanno credere altrettanti santi Tommasi e nuovi Dottori della Chiesa, conservando in ciò un sì ingegnoso decoro che in una riga ti rappresentano un innamorato perduto, e nell’altra ti fanno un sermoncino cristiano, ch’è una consolazione l’udirli o il leggerli! Deve di tutto ciò essere spoglio il mio libro, poichè non ho che citare nel margine, o che annotare nel fine, nè so di quali autori mi valga in comporlo; e così non posso affibbiarveli al principio, come da tutti si pratica, per le lettere dell’abbiccì, cominciando con Aristotele, e terminando con Senofonte e Zoilo o Zeusi, benchè l’uno sia stato un maldicente, l’altro un pittore. Ha pur
- ↑ Il Cervantes aveva cinquant’anni allorchè pubblicò la prima parte del don Chisciotte.