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130 i marmi - parte prima


sforzandolo che venisse da me, gli venni a dire cosí: «Vieni senza fallo, acciò che san Chimenti ti facci la grazia».

Alfonso. Non v’ho io detto che le membra sono da voi altri male apiccate? Guardate il Macchiavello nella Mandragola se egli lo messe a sesta; ma voi potreste bene apontare i piedi al muro che mai tirereste la cosa appunto.

Conte. Insegnatemi come si fa a far bene.

Alfonso. Aiutatevi con le mani e con i piedi da voi, ché a me non basta l’animo d’aver tanto buono in mano che io ve lo possi insegnare; e perché io mi diffido, non ci andrei mai di buone gambe con esso voi a simile impresa.

Conte. Questa è grande certo, che tuttavia io vi odi garbettare e usare quei modi di dire e non possi imitarvi.

Alfonso. Che fa egli a voi questa cosa? non basta che la lingua vostra sodisfacci a tanto quanto fia bisogno al viver vostro, al viaggio di questa vita? non séte voi inteso alla patria? che volete imparare una lingua che sempre vi bisogni, quando parlate, esser comentatore del vostro testo?

Conte. Voi mi date la baia: io l’ho caro che voi mi persuadiate a durare poca fatica e non contentare i miei giusti desiderii e onorevoli concetti.

Alfonso. Se desiderate imparar la nostra lingua, state con esso noi; di cosa nasce cosa e il tempo la governa; forse che v’addestrerete.

Conte. Imparerò io poi?

Alfonso. Questa è la giuggiola: voi ve n’avvedrete; penso di sí.

Conte. Perché non fate voi altri fiorentini una regola della lingua e non aver lasciato solcar questo mare di Toscana al Bembo e a tanti altri che hanno fatto regole, ché sono stati molti e molti che ne hanno scritte?

Alfonso. Bastava uno che scrivesse bene e non tanti; poi noi altri fiorentini siamo cattive doghe da bótte, perché ci accostiamo mal volentieri a’ vostri umori; voi la tirate a vostro modo e noi a nostro la vogliamo. Voi scrivete «prencipe, volgare, fòsse» e noi «principe, vulgare» e «fusse»; perché cosí