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il tempo 191


piú si fanno padroni del tempo e dei beni della fortuna tanto piú si tirano carico adosso:

     Quid valetl argentum,
quid annis vivere centum?
post miserum funus
pulvis et umbra sumus.

L’uomo nato di donna poco tempo ci regna. Che son cento venti anni a un uomo? Un soffio, un vento, un punto di tempo. I nostri lavori son una tela di ragnatelo, poco durabili e una fatica gettata via: da settanti anni in lá tutto è dolore. Che ti paion le cose passate?

Ignorante. Nulla, fumo.

Dottore. Quelle che in dubio sei per passare, che credi tu che le sien per essere?

Ignorante. Manco che nulla, se cosí si può dire.

Dottore. Alla fine, son meno che tu non ti puoi pensare. Un punto, disse Seneca, è quello che noi viviamo, e manco d’un punto. Breve e caduche son tutte le cose e dell’infinito tempo che ha da venire non occupano nulla nulla, perché nulla sono. Senti quel che disse san Bernardo:

Omnia quæ cernis vanarum gaudia rerum
umbra velut tenuis veloci fine recedunt.

Ignorante. Son pur grandissime stoltizie o, per dir meglio, gli uomini son pur pazzi a nuocersi l’uno all’altro! E perché? Oh infinito errore, che per cose síi caduche, sí fragili, per baie di ciancie, per novelle di parole, per ombra, fumo e cosa che si consuma, come è la roba, che venghino offesi tanto gli uomini!

Dottore. Le son circa a quattro cose che cacciano un uomo a far che egli nuoca all’altro; e qui ti voglio insegnare come tu debbi fare a fuggirle e viver piú sicuro.

Ignorante. Voi m’insegneresti la bella cosa.

Dottore. Lo scultore bisogna che trovi la materia disposta a introdurvi dentro la figura.