Pagina:Economisti del Cinque e Seicento, Laterza, 1913.djvu/305

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secondo che porta l’occorrenza, per mantenere sempre ne’ suoi popoli quella quantitá di esse che fa bisogno, e senza eccesso. Resta dunque manifesto, tanto da’ precedenti che dal presente capitolo, che sulle monete d’oro e d’argento, come quelle che nell’universal commercio corrono da uno Stato o da un regno nell’altro, non può il principe partire da quelle proporzioni che sono universalmente usate dagli altri ancora, e che nel viglione o monete basse non può egli eccedere la quantitá di cui ha bisogno lo Stato suo per gli usi minuti ; ma dentro a questa misura può d’un onesto guadagno provecchiarsi, senza danno de’ sudditi. Onde pare che possa dirsi che all’oro ed argento dá la valuta il ius delle genti, o sia il comun consenso delle nazioni, del quale non ha potere un principe particolare; ma alla moneta minuta dá prezzo il principe, che può a’ suoi popoli imporre a suo arbitrio la legge: ma deve imporla tale, che non pregiudichi a’ medesimi né a se stesso.

CAPITOLO Vili

Del valore delle monete paragonate alle lire e scudi di ciascun paese, che sono per lo piú immaginarie.

Sono adunque i due piú ricchi metalli la vera misura e prezzo delle cose vendibili; e, se il rame o la moneta minuta e di lega inferiore ha corso in commercio, non serve che come fanno l’once, le dramme e i grani nel pesar le mercanzie a pesi grossi, imperocché s’espongono le quantitá di esse prima a pesi maggiori di libbre, pesi, rotoli, ecc., e solo le minuzie di piú spiegano con l’once e le dramme. Che però il vero prezzo e valore d’una cosa non in altro consiste, secondo le precedenti dottrine, che nell’egualitá di stima che fanno gli uomini di quella tal cosa e di un tanto oro, o in sua vece proporzionatamente d’un tanto argento; ed allora si dice prezzo giusto, quando comunemente gli uomini quel tanto oro ed argento