Pagina:Elogio della pazzia.djvu/88

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elogio 75

faccia egli il suo passaggio sulla terra. Costretto fin dall’infanzia a consecrarsi allo studio, passa il fiore de’ suoi anni nelle veglie, nelle cure, nella più assidua fatica: appena è uscito da questa dura schiavitù, si trova ancora più infelice che mai, imperocchè dovendo vivere con economia, nella ristrettezza, nella malinconia, nella severità, diviene crudele e pesante a sè stesso, molesto e insopportabile agli altri. Pallido, magro, infermiccio, cisposo, debole, incanutito, invecchiato anzi tempo, termina una vita infelice con una morte immatura. Ma che importa al savio il morire giovine o vecchio? mentre si può asserire con tutta ragione che non abbia mai vissuto, imperocchè non può dirsi che altri viva quando non gode i piaceri della vita. Ora, che ve ne pare di questo bel ritratto del savio? Vi piace o no?

Già già m’aspetto, che quelle importune ranocchie degli stoici vengano ad assalirmi con nuovi argomenti. E che, diranno essi, un’insigne pazzia non confina forse col furore, anzi non può chiamarsi un vero furore? Ma cosa vuol dire esser furioso? Non è forse aver la mente stravolta? Quanto mi fan pietà questi filosofi! Il più delle volte non sanno quel che si dicono. Su via, se mel concedono le muse, voglio abbattere, voglio distruggere anche questo loro palladio. Non posso negare che questi stoici non siano sottili ragionatori; ma per poco ch’eglino bramino d’esser riputati di buon senno, devono distinguere due sorta di pazzie, in quella guisa che si distinguevano da Socrate presso Platone due Veneri, e due Cupidi, lo dico, che tutte le pazzie non rendono egualmente infelice l’uomo: e se ciò non fosse, Orazio, certo non avrebbe dato l’epiteto di amabile a quel furore, che invade i poeti, e che scopre l’avvenire: Platone annoverato non avrebbe fra i principali beni della vita