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Poco tempo prima vi erano stati due lutti nel patriziato romano. Era morta donna Laura Ruspoli, moglie di don Emanuele, e il conte Napoleone Primoli, e nell’aprile moriva pure la buona baronessa Keudell, che aveva saputo meritarsi tante simpatie.

Così Roma non fu lieta come al solito in quella primavera, benchè tre nuove dame avessero fatto la loro apparizione nei balli in casa di don Leopoldo Torlonia, a quelli dell’ambasciata inglese, di casa Doria e di casa Pandolfi. Queste tre dame erano donna Maria della Gandara, sposatasi a Parigi, con don Ferdinando del Drago, principe d’Antuni; donna Emilia Rucellai, divenuta principessa Odescalchi e donna Flaminia Torlonia, maritata al marchese Marignoli.

In quell’inverno, oltre i soliti balli, la Regina inaugurò i grandi concerti al Quirinale e assistè ai corsi del Carnevale dal terrazzino del palazzo Fiano; il Re andava a quello del Club degli ufficiali e il Kedivè, insieme con i suoi figli, dall’orefice Bellezza a San Carlo al Corso.

Ma anche i corsi furono turbati da due incidenti luttuosi, uno dei quali avvenne sotto gli occhi dei Sovrani. Si faceva allora la corsa dei barberi per più giorni; il primo la gente non sentì il segnale della partenza dato alla ripresa dei barberi e si trovò i cavalli addosso. Vi furono due feriti piuttosto gravi, ma la corsa si ripetè nei giorni successivi. L’ultimo giorno di carnevale a San Lorenzo in Lucina un barbero fece cadere un individuo, e gli cadde poi addosso; l’altro barbero che veniva dopo ebbe eguale sorte e nella caduta travolse undici persone, due delle quali morirono. Il Re andò subito a vedere i feriti a San Giacomo, ne soccorse le famiglie, che ebbero aiuto anche dal comitato del carnevale. La cosa produsse tanta impressione in città, che fu oggetto di una interpellanza alla Camera, e l’on. Depretis promise d’interporsi presso il sindaco, affinchè le corse dei barberi non si facessero più, e la barbara usanza da quell’anno è stata abbandonata.

Ho accennato nella cronaca dell’anno precedente agli attacchi contro il Baccelli; in questo si fecero vivissimi.

Il ministro Baccelli aveva abusato di soverchia severità contro due studenti dell’università di Cagliari. Il professore Sbarbaro lanciò contro il ministro il nembo dei suoi furiosi telegrammi e delle sue sdegnose lettere; il ministro lo sospese dalla cattedra di Parma e il professore racimolò nel vocabolario gli epiteti più infamanti, e glieli scaraventò contro.

Lo Sbarbaro aveva fama di uomo dotto e di uomo onesto e attorno a lui si raccolsero tutti i malcontenti del ministro Baccelli. Anche il Bonghi mandò una circolare a tutti i professori di diritto, invitandoli a pronunziarsi sulla sospensiva pronunziata dal Baccelli contro lo Sbarbaro. Il celebre criminalista Carrara, uno degli interpellati, rispose che come membro del Consiglio Superiore della pubblica istruzione, si riserbava a pronunziarsi quando il Consiglio si sarebbe adunato. Questo si adunò e condannò lo Sbarbaro ad un anno di riposo forzato.

Il professore non seppe rassegnarsi tanto più che, debole com’era di carattere, subiva l’influenza di tutti quelli che gli si riunivano attorno, e che lo inducevano a sfogare i loro rancori contro il Baccelli. Erano impiegati licenziati, gente che facevagli credere di posseder documenti contro il ministro, e lo invitava al suo giuoco.

Lo Sbarbaro era nella miseria e la moglie di lui doveva ricorrere al ministro per sussidii. La polemica peraltro continuava e le minacce di scandali fioccavano sulla testa di Guido Baccelli. I giornali gettavano olio sul fuoco e paralizzavano l’opera delle persone bene intenzionate, che vedevano con dolore quella guerra nociva così al ministro, come al professore Sbarbaro. La Gazzetta d’Italia parteggiava per quest’ultimo insieme con la Capitale; il Capitan Fracassa era tutto Baccelli.