Pagina:Emma Perodi - Roma italiana, 1870-1895.djvu/33

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Avevo fatto prigionieri due zuavi, i quali temendo l’ira popolare, si raccomandavano di esser posti in salvo. Li condussi a una casa alla Pedacchia, ma mi fu chiuso l’uscio in faccia.

«Salimmo al Campidoglio e mi impossessai degli uffici, e ordinai agli impiegati di rimanere il posto, perchè urgeva provvedere specialmente agli alloggi per gli ufficiali italiani. Mio nipote Tito mi fu in questo di molto aiuto, perchè conosceva tutte le case romane.

«Ero lassù intento al lavoro quando alle 9 1/2 di sera giunse una folla schiamazzante, che chiedeva con alte grida la liberazione dei prigionieri politici. Io non volevo contentarla, per non aprir le porte ai ladri e ai delinquenti. Che faccio allora? Invito gli ufficiali, che custodivano il Campidoglio a prendere in mano le faci, mi metto sulla gradinati dinanzi alla folla, e schiero quegli ufficiali dai lati. I gridi continuavano e io prendo la parola e dico: «Vedete questi bravi ufficiali! Essi, ossequenti all’ordine, hanno aspettato due mesi nella campagna, prima di entrare a Roma; i nostri prigionieri saranno lieti di aspettare una notte. Quegli eroi non devono essere liberati insieme con i ladri e gli assassini, con i quali stanno rinchiusi».

— «Ma noi li conosciamo e tu li conosci» mi gridava scherzando Alessandro Castellani dalla folla.

— «Sarebbe difficile fare la scelta» rispondevo io.

«Intanto il popolo si era calmato ed applaudiva alle mie parole.

«Rimasi tutta la notte solo in Campidoglio lavorando.

«Il decreto della liberazione dei prigionieri politici porta la mia sola firma».

Quella stessa sera una imponente dimostrazione percorreva le vie illuminate. Il Corso era gremito di gente. «Si! Si! Si!» era il grido che echeggiava per tutta la città, e quel Si che significava l’unione al regno d’Italia, era pronunziato da migliaia di voci, e si leggeva sui cappelli degli uomini e anche delle signore. Era un plebiscito popolare che preludeva a quello legale, un plebiscito spontaneo e di inestimabile valore. Il busto del Re era portato in processione, e in quella città senza governo, senza una guardia, non avveniva nessun disordine; e soltanto ad ora tardissima si cessavano gli evviva, si spengevano i lampioncini delle luminarie, e Roma, stanca di tanto entusiasmo, di tante grida, si abbandonava al sonno, mentre su di lei vegliavano dalle piazze, dai bivacchi, i soldati italiani.

Il giorno che tenne dietro alla presa, fu pure giorno di esultanza per il popolo di Roma, ma fu anche giorno di lavoro per la diplomazia, che affidava il mandato di trattare con i vincitori al Conte Arnim. Già la mattina presto il Ministro prussiano, in uniforme, era in piazza Colonna a piede e cercava l’abitazione del Generale Cadorna. Il Comandante in Capo era tuttavia a Villa Albani, non avendo ancora fatto il suo ingresso ufficiale in Roma, e fu diretto al generale Angelino. Il signor Arnim gli espose che il Papa era in gran timore del popolo, il quale minacciava di commettere rappresaglie, e lo pregava di occupare la città Leonina. Il general Cadorna fu informato di questa richiesta, ma rispose che non poteva accondiscenderai senza una lettera del Kanzler, perchè nella capitolazione appunto era esclusa dalla resa quella parte di Roma, che circonda il Vaticano. Ecco il documento ufficiale:


Comando del 4° corpo d’esercito


Capitolazione per la resa della Piazza di Roma, stipulata fra il Comandante Generale delle truppe di S. M. il Re d’Italia e il Comandante Generale delle truppe pontificie rispettivamente rappresentate dai sottoscritti.

Villa Albani, 20 settembre 1870.


I. La città di Roma, tranne la parte che è limitata al sud dai Bastioni S. Spirito e comprende il Monte Vaticano e Castel S. Angelo e costituisce la città Leonina, il suo armamento completo, bandiere,