Pagina:Eneide (Caro).djvu/168

Da Wikisource.
[570-594] libro iii. 127

570Ne la picciola Troia, e con diletto
Un arido ruscello, un cerchio angusto
Sentii con finti e rinovati nomi
Chiamar Pergamo e Xanto; e de la Scea
Porta entrando abbracciai l’amata soglia.
575Così fecero i miei, meco godendo
L’amica terra, come propria e vera
Fosse lor patria. Il re le sale e i portici
Di mense empiendo, fe lor cibi e vini
Da’ regii servi realmente esporre
580Con vaselli d’argento e coppe d’oro.
     Passato il primo giorno e l’altro appresso,
Soffiâr prosperi i venti; ond’io comiato
A l’indovino re chiedendo, seco
Mi ristrinsi e gli dissi: Inclito sire
585Cui non son degli Dei le menti occulte,
Che Febo spiri e ’l tripode e gli allori
Del suo tempio dispensi, e de le stelle
E de’ volanti ogni secreto intendi,
Danne certo, ti priego, indicio e lume
590De le nostre venture. Il nostro corso,
Com’ogni augurio accenna ed ogni nume
Ne persuade, è per l’Italia: e lieto
E fortunato ancor ne si promette
Infino a qui. Sola Celeno arpia


[349-365]