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alla tecnica dei Greci e dei Romani ci somministrano numerose, per quanto slegate e frammentarie notizie, gli scrittori, le leggi, i rottami di attrezzi e di macchine — aratri, mulini, telai, forni, stampi e via dicendo — raccolti negli scavi, e i disegni scolpiti nei bassorilievi. Ma da secolo a secolo, da paese a paese, non si riesce a scoprire differenze visibili e quindi progresso, come l’intendiamo noi, fuorché nelle macchine di guerra. Gli strumenti della industria e della agricoltura non mutano, a distanza di secoli; le forze motrici sono sempre i muscoli umani, alcuni animali, il vento e l’acqua; il vapore è un gingillo. In tutta la letteratura antica ho trovato una sola pagina, in cui l’ammirazione del progresso, oggi così fervida, sia presentita: la prefazione del libro diciannovesimo della Historia naturalis, in cui Plinio il vecchio, raccontando che il Mediterraneo ai suoi tempi è solcato in ogni verso non più da navi a remo ma da navi a vela, dopoché l’abbondanza del lino coltivato in Occidente ha fatto della tela un oggetto di consumo corrente, vanta la velocità delle navi spinte del vento, i viaggi affrettati, lo spazio vinto, con parole, che un moderno potrebbe ripetere, ritoccandole appena, del vapore. Ma se gli strumenti non mutavano, mutavano, e molto, i manufatti da epoca ad epoca; secondo che la mano di una generazione e di un popolo era più abile o meno, più arduo o più facile il modello di perfezione a cui i differenti secoli e le diverse nazioni guardavano, più