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tendere la guancia sinistra a chi ci percuote sulla destra?

Se tutte le virtù civiche fortificavano il regno terrestre, a che servivano per le glorie di quello divino? Perchè ammirare il coraggio, quando non serviva che ad uccidere e a farsi uccidere, come gladiatori, per un padrone inutile? Perchè conquistare il mondo e imporgli le proprie leggi, se soltanto contavano quelle di Dio, alle quali si deve obbedire non per forza ma per amore? Perchè accumular denari arricchendo nello stesso tempo lo Stato con la privata avarizia, se tanto le vere ricchezze stanno nel proprio cuore o nei cieli; se inutile è pensare al domani, poiché Dio provvederà ai nostri bisogni, come dà cibo e vesti agli uccelli del cielo? Perchè migliorare la propria condizione e render sicuro lo Stato, se nella sofferenza sta la vera gioia, e nel patire l’ingiustizia altrui, si prova l’infinito godimento di sentirsi migliore?

Esagererebbe chi attribuisse al Cristianesimo soltanto tutto questo capovolgimento della antica morale. Già in seno al paganesimo le grandi filosofie universalistiche, come lo stoicismo, avevano incominciato ad opporre la morale umana alla morale civica. Seneca era arrivato ad affermare « homo res sacra homini » immaginando una città universale ove tutti potessero abitare — amici e nemici, padroni e servi, patrizi e plebei — senza distinzione di nazionalità, di classe e di diritti politici. Nella stessa storiografia noi abbiamo veduto a Livio, per il quale il grande