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sonetti. 123


LXXV.

'NA REGAZZA CHE SE CACCIA LE MOSCHE.


     Arïècchelo1 qua sto rugantino!
Vattene, svérto; e ’n’antra vòrta, sai,
Che ciaritorni e me vienghi vicino,
Pijò un tortóre...!2 E mo, dimme, che fai

     Qui davanti, mannaggia er carettino?
Sai che nun te ce vojo: embè? nu’ m’hai
Capito ancora, brutto burattino?
Be’ dunque te ne va’ o nun te ne vai?...

     Dov’hai d’annà? Dove te par’e piace,
Vassallo3 porco! Bùttete magara4
A fiume, abbasta che me lassi in pace.

     E aricòrdete, sai: si un antro giorno
Càpiti qui co’ quela faccia amara,
Ciò5 er modo de levàmmete datorno!



  1. Rieccolo, eccolo di novo.
  2. Bastone grosso e greggio e piuttosto corto, atto a dar busse. Ma propriamente tortóre è quel randello che serve a stringer fortemente le funi con cui si legano balle, carichi e cose simili (operazione che in Toscana dicesi arrandellare, o, più volgarmente, attortare). Ed è usato anche nella montagna pistoiese; ma in altri luoghi di Toscana si dice tortoro. Ognun vede che questo vocabolo è necessario; e infatti non manca al francese (tortoir), nè mancava alla bassa latinità (tortor: nel Du Cange). Eppure, manca a tutti i nostri vocabolari, salvo quello dell’Uso toscano del Fanfani!
  3. Becero, birichino.
  4. Magari, anche.
  5. Ci ho.