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AVVERTENZE

INTORNO AL DIALETTO ROMANESCO


Ogn’Italiano può leggere e intendere molto facilmente questo dialetto; ma pure non saranno del tutto inutili le seguenti avvertenze.

Per indicare, ne’ casi in cui è necessario, su qual sillaba cada la posa della voce (accento tonico), e insieme se la vocale così accentata sia aperta o chiusa (accento fonico), noi, in tanta deplorabile confusione dell’ortografia italiana, facciamo in questo modo. Sulle vocali e ed o mettiamo l’accento grave, quando devono pronunziarsi aperte; e l’acuto, anche in fin di parola, quando devono pronunziarsi chiuse. Sulle tre altre vocali, che hanno sempre, in romanesco come in italiano, un suono solo, e che perciò richiedono il solo accento tonico, mettiamo sempre il grave, anche nel corpo della parola. E del grave ci serviamo (anzichè del circonflesso, il quale ci è parso inutile, e fors’anche equivoco a cagione del diverso valore che ha in francese), per distinguere vòi (vuoi) da voi pronome, pòi (puoi) da poi avverbio, e simili.

Tutti gl’infiniti de’ verbi, in romanesco, mancano della sillaba finale re; ma conservano l’accento tonico e il medesimo accento fonico sulla vocale in cui l’hanno in italiano: parlà (parlàre), avé (avére), patì (patìre) créde (crédere). Alcuni pochi però, accentati in italiano sulla penultima, sono in romanesco ora tronchi e ora piani, a capriccio. Così, chiamare e vedere fanno ora chiamà e vedé, e ora chiama e vede; per esempio: «Sémo annati a vedé la festa; e voi nu’ la volete vede?» Sui piani non mettiamo nessun accento, salvo il caso che occorra distinguerli da qualche omonimo, come èsse (essere) da esse pronome.