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ultime lettere di jacopo ortis 285


17 marzo.

Da due mesi non ti do segno di vita, e tu ti se’ sgomentato; e temi ch’io sia vinto oggimai dall’amore, da «dimenticarmi di te e della patria». Fratei mio Lorenzo, perdonami: tu conosci pur poco me e il cuore umano ed il tuo, se presumi che il desiderio di patria possa temperarsi mai, non che spegnersi; se credi che ceda ad altre passioni. Ben irrita le altre passioni, e n’è piú irritato; ed è pur vero, e in questo hai detto pur bene: «L’amore in un’anima esulcerata, e dove le altre passioni sono disperate, riesce onnipotente», e io lo provo. Ma che riesca funesto, t’inganni: senza Teresa, io sarei forse oggi sotterra.

La natura crea di propria autoritá tali ingegni da non poter essere se non generosi. Venti anni addietro, sí fatti ingegni si rimanevano inerti ed assiderati nel sopore universale d’Italia; ma i tempi d’oggi hanno ridestato in essi le virili e natie loro passioni, ed hanno acquistato tal tempra, che spezzarli puoi, piegarli non mai. E non è sentenza metafisica questa: la è veritá che splende nella vita di molti antichi mortali gloriosamente infelici; veritá di cui mi sono accertato convivendo fra molti nostri concittadini. E li compiango insieme e gli ammiro: da che, se Dio non ha pietá dell’Italia, dovranno chiudere nel loro secreto il desiderio di patria, funestissimo, perché o strugge o addolora tutta la vita; e nondimeno, anziché abbandonarlo, avranno cari i pericoli, e queil’angoscia, e la morte. Ed io mi sono uno di questi; e tu, mio Lorenzo.

Ma, s’io scrivessi intorno a quello ch’io vidi e so delle cose nostre, farei cosa superflua e crudele, ridestando in voi tutti il furore che vorrei pur sopire dentro di me: piango, credimi, la patria... la piango secretamente e desidero

che le lagrime mie si spargan sole1

Un’altra specie d’amatori d’Italia si quereli ad altissima voce a sua posta. Esclamano d’essere stati venduti e traditi: ma, se si

  1. Petrarca.