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ultime lettere di jacopo ortis 321


mezzanotte.

Io porgeva alla divinitá i miei ringraziamenti e i miei voti, ma io non l’ho mai temuta. Eppure adesso, che sento tutto il flagello della sventura, io la temo e la supplico.

Il mio intelletto è acciecato, la mia anima è prostrata, il mio corpo è sbattuto dal languore della morte.

È vero! i disgraziati hanno bisogno di un altro mondo, diverso da questo dove mangiano un pane amaro e bevono l’acqua mescolata alle lagrime. La immaginazione lo crea, e il cuore si consola. La virtú, sempre infelice quaggiú, persevera con la speranza di un premio. Ma sciagurati coloro che, per non essere scellerati, hanno bisogno della religione!

Mi sono prostrato in una chiesetta posta in Arquá, perché io sentiva che la mano di Dio pesava sopra il mio cuore.

Son io debole forse, Lorenzo? Il cielo non ti faccia mai sentire la necessitá della solitudine, delle lagrime e di una chiesa!

ore 2.

Il cielo è tempestoso, le stelle rare e pallide, e la luna, mezza sepolta fra le nuvole, batte con raggi lividi le mie finestre.

all’alba.

Lorenzo, non odi? T’invoca l’amico tuo. Qual sonno! Spunta un raggio di giorno, e forse per inasprire i miei mali; Dio non mi ode. Mi condanna anzi ogn’istante all’agonia della morte, e mi costringe a maledire i miei giorni, che pur non sono macchiati di alcun delitto.

Che? Se tu se’ «un Dio forte, prepotente, geloso, che rivedi le iniquitá de’ padri nei figli e che visiti nel tuo furore la terza e la quarta generazione»1, dovrò io sperar di placarti? No.

  1. Esodo, xx, 5.