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ix - difesa di vincenzo monti 73


XVI

I tanti e diversi tiranni, ora conquistatori, ora usurpatori d’Italia, smembrarono le nostre province con vari dialetti ed opposte leggi, e convertirono il popolo legislatore dell’universo in altrettanti vulghi schiavi di barbari dominatori. E ben dopo averci rapito e mano e lingua e intelletto e virtú, vollero ottenebrarci anche lo ingegno, unico avanzo della nostra grandezza. Or poco italiani siam noi, se, perseguitando i grandi della etá nostra, tentiamo di togliere la preeminenza che la Italia ebbe sempre nelle arti1, e siamo propugnatori piuttosto delle antiche tirannidi che della italiana libertá. Ed orgoglioso, anziché amico delle arti, si è colui che disanima l’artista, perché sopravanza gli altri di gloria. Ma disavventura fu questa sempre della nostra patria, e ne fa fede Torquato Tasso, che, fra il dileggio de’ cortigiani, i sarcasmi de’ saccenti e l’orgoglio de’ principi, visse or carcerato ed or vagabondo, sempre malinconico, infermo, indigente2. Ma (forz’è confessarlo: prime e forti ragioni della persecuzione del Monti sono la sua gloria e l’altrui invidia) queste risse vergognose e ridicole si ritorcono sempre a danno della repubblica. I tiranni di tutti i tempi e di tutti i generi hanno ognora temuto la virtú e lo ingegno, poiché, mentre l’una

  1. E’ pare che le lettere muoiano. L’orgoglio nostro sprezza gli antichi: v’ha tale che s’ascrive lo stile di Tacito; tal altro corregge il Petrarca; chi proscrive la lingua greca e latina; chi asserisce che a’ di nostri «si dissero estemporaneamente cose sí immaginose e sublimi da lasciarsi dietro le spalle tutti i poeti dell’antichitá». Poco senno è dunque il mio, se in tanta barbarie io mi querelo delle persecuzioni che si movono contro gli uomini grandi: io dirò ciò che dicea Plutarco di Filopomene e de’ greci di que’ tempi: «Essi non appartengono a questo secolo» [F.].
  2. Niuno fra i poeti d’Italia fu piú costumato, piú sensibile, piú virtuoso del Tasso: eppure, vicino a morte, scrivea: «Non è piú tempo ch’io parli della mia ostinata fortuna, per non dire della ingratitudine degli uomini, la quale ha pur voluto aver la vittoria di condurmi alla sepoltura mendico» (Opere, vol. ix). Anche il Petrarca dicea di se stesso: «Haec fama hoc mihi praestitit ut noscerer et vexarer» (Epist. senil., lib. xvii). E chi non conosce gli errori e la povertá di Dante? Quel divo ingegno scrivea la cantica, avvolto nella maestá delle sue disavventure [F.].