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discorso quarto | 269 |
Se non che quella idea metafisica è piú, a mio parere, una obbliqua satira della specie umana. Poiché, dipingendo costumi e governi liberi d’ogni passione, e dalla sola ragione diretti, e però impossibili non solo, ma né atti pure ad esperimento, viene a provare che le leggi tutte devono prendere norma da’ vizi e dalla naturale e necessaria malvagitá de’ mortali. E Platone stesso, perché scriveva ad uomini greci, e non agli angioli della sua repubblica, non è forse, e per l’altezza de’ concetti, e per la pittura de’ personaggi, e per la passione delle sue narrazioni, e per quell’intrinseco incantesimo del suo stile, piú poeta d’ogni altro scrittore, e piú che non si conviene forse a filosofo? Non chiama egli «divini» i poeti, e gli stessi interpreti loro «ispirati dall’alto»?[1]. Era dunque non esilio, ma ostracismo quello de’ poeti dalla sua repubblica; la quale opinione, assurdamente raccolta, serve di spada agli scienziati illiberali ed a’ principi ignoranti, degni di essere capitanati da quell’imperadore, il quale, per non parere da men di Platoneí[2], poco mancò che non cacciasse da tutte le biblioteche le statue ed i libri di Virgilio e di Livio.
VIII. Tornando alla religione, ciascuno de’ poeti teologi e storici da noi citati, è pur poeta ebreo, inglese, italiano; ma Omero solo è poeta de’ secoli e delle genti. Si ha ciò forse ad ascrivere alla antichitá, a cui amano i mortali di congiungersi con l’immaginazione per possederla ed aggiungerla alla loro vita presente? Ma gli ebrei furono contemporanei d’Omero; anzi, per le loro storie, piú antichi. Forse al lume che gli scrittori hanno dato a que’ tempi? Sono piú illustrate le storie inglesi e le nostre. Dunque è pur forza ascrivere questo effetto alla universalitá di quella religione omerica, che, distesa a tutte quasi le nazioni, da cui le moderne discendono, la reputiamo ereditá degli avi; e molto piú alla allegoria che quegli iddii hanno a tutte quante le passioni ed a tutte le cose naturali. Per questa