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capitolo xviii 185

     io trovai ’l Laberinto; e ch’ello fusse
65nol conoscea, se non ch’io vidi dentro
quel che del toro Pasife produsse.
     Egli mugghiava fortemente, e, mentro
stav’io a vederlo e ad udir i lamenti,
che l’anime facean nel cieco centro,
     70venían tre alme a quelli gran tormenti
belle e membrute, pien di sangue e grasse,
ma nella vista angosciose e dolenti.
     Come leon, che allegro e crudo fasse,
vista la preda, e mostra maggior ira,
75non altramente Nesso inver’ lor trasse,
     il quale amò la bella Deianira.
Trasse il centauro che nutrí Achille,
e come sanguesuga il sangue tira.
     Trasse Medon ed Imbro e piú di mille;
80ed ognun le succhiava quanto puote,
come cagnol che succhia le mammille.
     Poscia che l’alme fûn del sangue vòte,
divennon magre, ed ognuna si fece
qual è la fame indosso e nelle gote.
     85Diss’io:— O spirti, se parlar vi lece,
chi foste e perché sète sí destrutti?
per qual iustizia o colpa o in qual vece?
     — Capitan di campagna fummo tutti
— rispose l’uno,— e qui per un cammino
90venuti a queste pene e a questi lutti.
     Ed io, che parlo a te, sono Ambrosino,
figliuol di Barnabò, del gran lombardo,
e sol qui tra costor io fui latino.
     L’altro, ch’è qui, è Annichin Mongardo;
95fra Moriale è ’l terzo; e questa asprezza
abbiam, ch’ognun fu crudo e fu bugiardo.
     E molt’erra chi crede aver fermezza
fede d’uom d’arme ovver di meretrice,
da che ’l denaio a suo piacer la spezza.