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244 del rinnovamento civile d'italia


diffidenze, l’astio meschino fra i principi non solo, ma anche fra i popoli italiani. Allora l’Italia avrebbe fatto veramente da sé...; e l’esoso straniero, ricacciato oltre le Alpi da tutte le forze collegate d’Italia, avrebbe perduto perfino la speranza di rivarcarle»1. E gli ordini liberi erano assicurati in tutta la penisola, essendo posti sotto il patrocinio della lega e della Dieta, e abilitato in ogni caso il Piemonte a difenderli. L’unione politica avrebbe perciò dovuto stringersi sin da principio, quando non si seppe pure ultimare l’accordo delle dogane, o almeno farsi quando Roma e Napoli la domandavano. Or chi crederebbe, se la storia non ne facesse fede, che ogni instanza e premura fosse inutile? che Domenico Pareto, oratore di Sardegna a Roma, «a nome del suo governo dichiarasse il Piemonte non poter trattare della lega se non a guerra finita»2? che Torino fosse men sollecita di porre le basi della nazionalitá italica che Napoli e Roma? e i consiglieri di Pio nono e di Ferdinando piú teneri dell’unione che Cesare Balbo? «Fatale errore fu questo del ministero piemontese, poiché diede un’arma formidabile in mano ai nemici della causa italiana, accreditò la stolta accusa di mire usurpatrici ed ambiziose attribuite a Carlo Alberto, e tolse al ministero Troya il solo mezzo efficace che egli aveva per persuadere al re Ferdinando a combattere con efficace energia la guerra della indipendenza nazionale»3. «Egli è indubitato che il non aver mandati oratori a Roma per conchiudere la lega fu un errore, il quale non per poco contribuí alle gelosie, ai sospetti, alle future deliberazioni della corte romana», instillando nell’animo di Pio nono il sospetto «che l’idea di una colleganza dei principati italiani sotto il patrocinio del romano pontefice cedesse per avventura il luogo all’idea del primato di un principato militare e militante»4. So che il rifiuto fu attribuito a Lorenzo Pareto, ministro sopra gli affari esterni; ma come maiƒù

  1. Massari, op. cit., p. 39.
  2. Ibid. p. 137.
  3. Ibid.
  4. Farini, op. cit., t. ii, pp. 93, 96.