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Napoli, il 6 Marzo 1787.

Tuttochè mal volontieri, pure per dovere di amico, Tischbein mi ha voluto oggi accompagnare sul Vesuvio. A lui, artista distinto, il quale di continuo si studia, si affatica a riprodurre le forme umane, quelle degli animali, sotto il migliore aspetto, che riesce colla squisitezza del suo gusto ad abbellire gli oggetti i meno belli, non poteva guari sorridere la vista di quella mole cupa, terribile, la quale di continuo si distrugge, si consuma, e che ha dichiarata la guerra ad ogni bellezza di natura, e dell’arte.

Partimmo in due carozzelle, imperocchè non ci arrischiammo a guidare noi stessi i cavalli, fra mezzo al brulichio di persone, le quali formicolano per la città. Il cocchiere, o vetturino che sia, è obbligato a gridare di continuo largo! largo! per allontanare asini carichi di legna, o di spazzature, di concime, altri calessini i quali corrono a precipizio, facchini carichi ovvero liberi, vecchi, ragazzi, per aprirsi il varco senza fare danno a veruno, in quel vortice.

La strada traversa i sobborghi della città, e fra i giardini ed orti che a quelli succedono, cominciava ad avere carattere diabolico, imperocchè non avendo piovuto già da molto tempo, erano ricoperte di fitte polvere cenerina le foglie delle piante, degli alberi sempre verdi, i tetti delle case, le cornici di queste, tutto quanto in somma porgeva un punto di sporgenza, di appoggio. Tutto era di uguale tinta grigia, e l’azzurro soltanto del cielo, e lo splendore del sole, valevano a far testimonianza, che non ci trovavamo già nel regno delle ombre, ma bensì ancora fra gente viva.

Ai piedi della rapida salita fummo accolti da due guide, uno giovane e l’altro più attempato, uomini forti però entrambi, e robusti. Il primo trascinò me, il secondo Tischbein sù per il monte. Dico che ci trascinò, imperoc-