Pagina:Goldoni - Memorie, Sonzogno, 1888.djvu/20

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18 parte prima

bre mi annoiava a morte. Era affabile, savio, dotto, ed aveva molto merito, ma era affatto Tomista, nè poteva scostarsi dal suo metodo ordinario. Le sue digressioni, i suoi giri scolastici mi parevano inutili, e i suoi barbara, ed i suoi baralipton mi sembravano ridicoli. Io scriveva sotto la di lui dettatura, ma in vece di dare una occhiata in casa a’ miei quaderni, pascevo lo spirito d’una filosofia molto più utile ed assai più dilettevole, leggendo Plauto, Terenzio, Aristofane, ed i frammenti di Menandro. È ben vero che io non faceva una brillante figura nei circoli che si tenevano giornalmente. Avevo però l’accortezza di far comprendere a’ miei compagni che, nè una stupida infingardaggine, nè una crassa ignoranza mi rendevano indifferente alle lezioni del maestro, la prolissità delle quali mi stancava e mi veniva a nausea: vi erano molti che pensavano come me.

La filosofia moderna non aveva ancora fatti i considerabili progressi, che fece dipoi: bisognava attenersi (per gli ecclesiastici sopratutto) a quella di san Tommaso, o a quella di Scoto, o alla peripatetica, o alla mista, che tutte insieme non fanno altro, che allontanarsi dalla filosofia del buon senso. Avevo gran bisogno, per alleviare la noia che mi opprimeva, di procurarmi qualche piacevole distrazione: mi se ne porse l’opportunità, ed io ne profittai; nè dispiacerà forse di passar meco dai circoli filosofici a quelli di una truppa di commedianti. Ve ne era una in Rimini, che mi parve deliziosa. Era la prima volta che io vedeva le donne sul teatro, e trovai, che ciò abbelliva la scena in una maniera più seducente. Rimini è nella legazione di Ravenna, si ammettono le donne sul teatro, nè vi si veggono, come a Roma, uomini senza barba, o barbe ancor nascenti.

Andai alla commedia molto modestamente in platea nei primi giorni, e vedevo alcuni giovani come me tra le scene, tentai di penetrarvi, nè vi trovai difficoltà: davo delle furtive occhiate a quelle signorine, ed esse mi fissavano arditamente. A poco a poco mi addomesticai, e di discorso in discorso, di domanda in domanda intesero che io era Veneziano. Erano tutte mie compatriotte, mi fecero carezze, e mi usarono attenzioni senza fine. Il direttore medesimo mi colmò di gentilezze, e mi pregò di pranzare da lui: vi andai, nè vidi più il reverendo Padre Caudini.

Erano i commedianti per terminare le recite pattuite, e dovevano partire; la loro partenza mi dava veramente pena. Un venerdì, giorno di riposo per tutta l’Italia fuori che per lo Stato Veneto, fu fatta una scampagnata, ov’era tutta la compagnia. Il direttore annunziò la partenza fra otto giorni, ed aveva già assicurata la barca, che doveva condurli a Chiozza. A Chiozza? Io dissi pieno di stupore. — Sì, signore, noi dobbiamo andare a Venezia, ma ci tratterremo quindici o venti giorni a Chiozza, per darvi qualche rappresentazione di passaggio. — Ah mio Dìo! mia madre è a Chiozza, ed io la vedrei con molto piacere. — Venite con noi. — Sì, sì, (tutti gridarono un dopo l’altro) con noi, con noi, nella nostra barca; ci starete bene, non spenderete nulla, si giuoca, si canta, si ride, ci divertiamo. — Come resistere a tanto allettamento? Perchè perdere un’occasione così bella? Accetto, mi impegno, e fo i miei preparativi.

Incomincio dal parlarne al mio ospite che vi si oppone vivissimamente: insisto, ed egli ne rende inteso il conte Rinalducci. Erano tutti contro me. Fo sembiante di cedere, sto quieto; il giorno fissato per partire mi metto in tasca due camicie, ed un berretto da