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in poi, «la commedia inciampa in una sosta, la ragione della quale dovea essere poco chiara nella mente dell’autore, ed anche meno chiara riesce per quella del pubblico».

A Gioachino Brognoligo non soltanto parve di dover notare l’audace «rappresentazione sociale», ma l’amore che «si leva nelle alte sfere dell’ideale» e la passione «sacrificata a una severa moralità». (Il Rinascim., II, 1896, f. 28; e Nel teatro di C. G., Napoli, 1907). Più di recente L. Falchi concluse che non vi si può riconoscere «la intera opinione» dell’autore «intorno alla nobiltà», perchè il commediografo si mostrò qui «chiaramente favorevole a una parte dei nobili». (Intendimenti sociali di C. G., Roma, 1907, pp. 97-99).

Per via ben diversa R. Bonfanti si propose di ricercare le maschere conservate nella recita e poi soppresse nella stampa, dove per la prima volta scomparve del tutto il dialetto veneziano: nè gli fu difficile di scoprire sotto le spoglie e il nome del procur. Buonatesta il Dottor Balanzoni, nei personaggi di Balestra e Pasquino Brighella e Arlecchino «compagni indivisibili di Colombina», e nel mercante Anselmo Pantalone. (Soccorriamo i poveri bambini rachitici - Strenna pel 1907, Ven., pp. 58-68).

Il Cavaliere e la Dama, come prima la Buona Moglie principalmente, apparisce in qualche parte «una commedia lacrimosa»: genere fortunato allora in Francia e fortunatissimo poi in Italia. Non già che l’autore si proponesse «una tesi da svolgere sulle conseguenze non sempre innocenti del cicisbeismo: gli piacque invece alla rappresentazione satirica dei costumi sociali, già vecchia, aggiungere il contrasto d’un esempio virtuoso». (G. Ortolani, Della vita e dell’arte di C. G., cit., 48-49). Non getta il ridicolo sul tipo comune e vile del servente, bensì introduce ad agire il seduttore scettico del Settecento, don Flaminio (C. Dejob ammirò la finezza della scena ultima dell’A. I: «Il n’y a rien de plus tranquillement hardi dans tout le thèâtre d’aujourd’hui»: Les femmes dans la comèdie etc, Paris, 1899, p. 281), un po’ meno volgare del marchese Ottavio della Putta onorata. Il nome suo ci fa rammentare quel marchese Flaminio, eroe di una recente commedia di G. C. Becelli veronese (La Pazzia, o anche La Pazzia delle pompe, Ven., 1748), il quale così definiva se stesso e i compagni suoi:

                              «Il Cavaliere è quegli
               Che non s’impiega in alcuna fatica,
               O sia civile, ovvero militare,
               O d’altra sorte che onorata sia,
               E al mondo non fa niente e poi niente;
               E la sua vita passa in festa e in gioco».

Asseti più perversa della marchesa Beatrice è la moglie, donna Claudia: singolare figura femminile, incapace di fare il bene e di credere al bene, artisticamente la migliore della commedia, creata con psicologia semplice, ma potente. Di fronte a costoro impallidiscono donna Eleonora e don Rodrigo, con la loro virtù un po’ artificiosa, che l’amore tenta invano di riscaldare (sc. 12 dell’A. III). Più di una volta si risveglia l’eco lontana del teatro italo-spagnolo, ricordato