Pagina:Goldoni - Opere complete, Venezia 1908, III.djvu/323

Da Wikisource.

LA FAMIGLIA DELL'ANTIQUARIO 311

Doralice. Ma ch’io debba stare confinata in casa, perchè non ho vestiti da comparire, è una indiscretezza.

Anselmo. (Oh son pure annoiato!) (da sè) Andate da vostra suocera, ditele il vostro bisogno; a lei ho dato l’incombenza: ella farà quello che sarà giusto.

Doralice. Con la signora suocera non voglio parlare di queste cose; ella non mi vede di buon occhio. Vi prego, datemi voi il denaro per un abito, che io penserò a provvederlo.

Anselmo. Denaro io non ne ho.

Doralice. Non ne avete? I ventimila scudi dove sono andati? (parla sempre flemmaticamente)

Anselmo. A voi non devo rendere questi conti.

Doralice. Li renderete a mio marito. La dote è sua, voi non gliel’avete a mangiare.

Anselmo. E lo dite con questa flemma?

Doralice. Per dir la sua ragione, non vi è bisogno di scaldarsi il sangue.

Anselmo. Orsù, fatemi il piacere, andate via di qua; che se il sangue non si scalda a voi, or ora si scalda a me.

Dottore. Mi maraviglio di mio marito. È un uomo ammogliato, e si lascia strapazzare così.

Anselmo. Per carità, andate via.

SCENA VI.

Il conte Giacinto e detti.

Giacinto. Ha ragione mia moglie, ha ragione; una sposa non va trattata così.

Anselmo. (Uh, povere le mie medaglie!) (da sè)

Giacinto. Nemmeno un abito?

Anselmo. Andate da vostra madre, le ho dato quattrocento zecchini.

Giacinto. Voi, signor padre, siete il capo di casa.

Anselmo. Io non posso abbadare a tutto.

Giacinto. Maledette quelle anticaglie!