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LA FAMIGLIA DELL'ANTIQUARIO 383


avanti arditamente. Se tratta de assae, se tratta de tutto, e qua bisogna trovarghe qualche remedio.

Anselmo. Io lascio fare a voi.

Pantalone. Ella vol tender alle so medaggie.

Anselmo. Fin che posso, non le voglio lasciare.

Pantalone. E vu, sior zenero, cossa diseu? Ve par che se possa tirar avanti cussì? Ve par che vaga ben i affari della vostra casa?

Giacinto. Io dico che in poco tempo ci ridurremo miserabili più di prima.

Pantalone. Sior Conte, sentela cossa che dise so fio?

Anselmo. Lo sento, ma non so come rimediarvi.

Pantalone. Se vorla redur a non aver da magnar?

Anselmo. Ci sono l’entrate.

Pantalone. Co le se magna in erba, no le frutta el terzo. E de ste care niora e madonna, cossa disela?

Anselmo. Io dico che non si può far peggio.

Pantalone. No la pensa a remediarghe?

Anselmo. Io non ci vedo rimedio.

Pantalone. Che lo vederave ben mi, se gh’avesse un poco d’autorità in sta casa.

Anselmo. Caro signor Pantalone, io vi do tutta l’autorità che volete.

Giacinto. Sì, caro signor suocero, prendete voi l’economia della nostra casa; assisteteci per amor del cielo; fatelo per vostra figlia, per il vostro sangue.

Pantalone. Me despiase che anca ela xe mezza matta. Ma in casa mia no la giera cussì; la s’ha fatto dopo che la xe qua, onde spereria con facilità redurla in tel stato de prima.

Anselmo. Anche mia moglie una volta era una buona donna; ora è diventata un serpente.

Pantalone. Credeme, patroni, che ste donne le xe messe suso da sti so conseggieri.

Anselmo. Credo anch’io ch’ella sia così.

Giacinto. Ne dubito ancora io.