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230 ATTO SECONDO

Livia. Sarebbe bene che in ogni modo si venisse in chiaro della verità.

Guglielmo. Ho paura, per dirgliela, che quelle dieci doppie che mi ha dato donna Aurora questa mattina...

Livia. Dieci sole ve ne ha date?

Guglielmo. Dieci sole. Non ha sentito?

Livia. E vi ha lasciato uscire di casa sua, senza darvene dieci altre?

Guglielmo. Anzi ha ripigliate anche quelle che mi aveva donato.

Livia. Le ha ripigliate? Questa è un’azione indegna. A questo passo non so più contenermi. Sappiate che io stamane ho mandate venti doppie a donna Aurora, acciò, per via d’amicizia, senza che voi sapeste da chi venissero, fossero a voi donate.

Guglielmo. Ora capisco il mistero. Le venti doppie le ha divise a puntino: metà a me, e metà a suo marito. Sempre più, signora donna Livia, si accrescono le mie obbligazioni verso di lei; e sempre più mi maraviglio come don Filiberto abbia potuto farmi la mal’azione.

Livia. L’avranno fatto per profittar delle venti doppie; ma non gliela vo’ menar buona. Mi sentirà donna Aurora...

Guglielmo. La supplico, signora; se son degno di sperar qualche grazia, non mi nieghi questa per amor del cielo. Dissimuliamo, doniamo tutto a donna Aurora, a don Filiberto. Mi hanno mantenuto per tanto tempo, non è giusto ch’io paghi con un risentimento le obbligazioni che ho seco loro contratto.

Livia. Siete un uomo di belle viscere. Ammiro la vostra gratitudine, e me ne compiaccio.

Guglielmo. La gratitudine è un debito, che non si cancella nemmeno cogl’insulti di quello che ci ha una volta fatto del bene.

Livia. (Sempre più con queste belle massime m’innamora), (da sè) Che cosa dunque risolvete di fare?

Guglielmo. Non lo so nemmen io. (sospirando)

Livia. Caro signor Guglielmo, se la casa mia vi aggrada, ve ne fo padrone.

Guglielmo. Signora, la sua esibizione mi consola. Ma un giusto riguardo mi tiene in dubbio, se io la debba accettare.