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220 ATTO PRIMO


il pane, che è riserbato per i paesani. Io mi protesto, che cancellerie il signor Guglielmo non ne avrà.

Guglielmo. Obbligatissimo alle di lei grazie. (al conte Portici)

Conte. (A poco a poco donna Livia lo fa padrone del di lei cuore e delle di lei ricchezze). (da sè)

Livia. Signor Conte, voi non disponete delle cariche di questo Regno.

Conte. Eh via, signora, se vi preme il bel Veneziano, mantenetelo del vostro, e se volete beneficarlo, sposatelo, che buon pro vi faccia.

Guglielmo. (Questo sarebbe il più bell’impiego del mondo). (da sè)

Livia. Nelle mie operazioni non prendo da voi consiglio.

Aurora. Eh, che il signor Guglielmo non ha bisogno di pane.

Livia. In ogni forma resterete in Palermo, e per far conoscere il vostro spirito, il vostro talento, darete al nostro teatro alcuna delle vostre composizioni.

Conte. Sì, veramente ci farà un bel regalo. Verrà colle sue opere a rovinare anche il nostro teatro. Io parlerò altamente contro di lui; e se a voi, signora, piacciono le di lui opere, fatelo operare in casa. (Non sarà vero che un forestiere mi contrasti il cuore di donna Livia). (da sè, parte)

SCENA XVIII.

Donna Livia, donna Aurora e Guglielmo.

Guglielmo. Mi vogliono cacciar via di legge. 1

Livia. Orsù, a dispetto di tutto il mondo, voi resterete in Palermo. Se vi contentate2, la mia casa è a vostra disposizione.

Aurora. Oh perdonatemi, donna Livia, egli è in casa mia: non abbandonerà mio marito. Signor Guglielmo, andiamo; leviamo l’incomodo a donna Livia. (s’alza)

Guglielmo. Sono a servirla. (Io mi trovo nel più curioso imbarazzo del mondo). (da sè, alzandosi)

  1. Segue nell’ed. Pap.: «Aur. Eh, non abbiate paura, mio marito vi difenderà. Liv. Orsù ecc.
  2. Pap.: degnate.