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Aurora. (Povero giovine, può essere più modesto? Può essere più discreto?)

Guglielmo. No so cossa dir; son confuso da tante grazie....

Aurora. Via, non ne parliamo più. Ditemi, signor Guglielmo. Siete afflitto perchè non avete avuto lettere?

Guglielmo. La vede, dopo che son a Palermo, non ho abù nissuna nova de casa mia.

Aurora. E della vostra signora Eleonora avete avuto nova?

Guglielmo. Gnanca de ela.

Aurora. Oh, questo sarà il motivo della vostra malinconia, perchè non avete avuto nova della vostra cara.

Guglielmo. Ghe dirò: a Eleonora, come gh’ho dito tante volte, gh’ho volesto ben; ma se ho da dir la verità, l’ho amada più per gratitudine che per genio; per impegno ho promesso sposarla, e per ela me son squasi precipità. Xe quattro mesi che no la me scrive. Se la s’ha desmentegà de mi, anca mi prencipierò a desmentegarme de ela.

Aurora. Lo sa che siete a Palermo?

Guglielmo. La lo sa certo. Ghe l’ho scritto.

Aurora. Non sapete? Lontan dagli occhi, lontan dal core. Se ne sarà ritrovato un altro.

Guglielmo. Squasi, squasi avena gusto, che me succedesse sto caso. Cognosso che fava mal a sposarla, ma co se xe innamorai, no se ghe pensa, e dopo se cognosse el sproposito che s’ha fatto.

SCENA VI.

Arlechino e detti.

Arlecchino. Siora D. Livia ha manda.... Ehi, la diga, patron, quando vala via? (a Guglielmo)

Aurora. Cosa dici di D. Livia?

Arlecchino. L’ha manda la carrozza a levar la birba.

Aurora. Come? che dici?

Arlecchino. L’aspetta V. S. e sto sior a bever la cioccolata, e l’ha mandà la carrozza. (Maledetto! Cioccolata? Polentina).