Pagina:Goldoni - Opere complete, Venezia 1909, VI.djvu/301

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dar da magnar per carità, e particolarmente da uno, che fa de più de quel che el pol far. Ghe n’ho passà tante, passerà anca questa. Vôi star allegro, vôi devertirme, no ghe vôi pensar; voggio rider de tutto, e vôi far veder al mondo, che l’omo de spirito ha da esser superior a tutti i colpi della fortuna. (via)

SCENA VII.

Camera di D. Livia.

Donna Livia sola.

Ecco quattro partiti di matrimonio mi si offeriscono; ma niuno di questi mi può gradire, poichè li credo tutti appassionati non già per me, ma per l’acquisto della mia ricca dote. O voglio godere la cara libertà vedovile, o se nuovamente ho da legarmi, far lo voglio per compiacermi, e non per sagrifìcarmi. Mio padre, nel lasciarmi il ricco patrimonio di diecimille scudi d’entrata, ad altro non mi ha obbligata, se non che a maritarmi con uno che vantar possa qualche grado di civiltà. Oh, se quel Veneziano ch’è in casa di D. Aurora fosse persona civile, quanto volentieri lo sposerei; ancorchè fosse povero, non m’importerebbe. La mia pingue eredità renderebbe ricco anche lui. Basta, ho scritto a Venezia, e presto si saprà il vero.

SCENA VIII.

Paggio e detta.

Paggio. Signora.

Livia. Cosa c’è?

Paggio. È qui la signora D. Aurora.

Livia. È forse sola?

Paggio. Non signora, è con un forastiere.

Livia. Sarà quello che sta in casa con lei. Non lo conosci?

Paggio. Oh se lo conosco, e come! Se lo arricordano le mie mani.

Livia. Le tue mani? Perchè?

Paggio. In Messina mia patria, egli faceva il maestro di scuola, e mi ha date tante maledette sardelle!