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406 ATTO PRIMO


arrivato, dopo un anno che partì di Londra, in Venezia, ed esitate le mercanzie per conto di società dei tre medesimi, si sono ricavati, netti di spese, trentamila ducati veneziani. Si domanda quanto toccherà di utile a Tizio di Londra, a Caio di Cadice, a Fabio di Genova. Cospetto, che conto maladetto è mai questo? Ora mi trovo imbarazzato davvero. Non so come principiarlo. Non mi credeva mai, che si dessero conti di questa sorta: ma son nell’impegno, bisogna farlo. Tizio in Londra duemila lire sterline. Bisognerebbe che io sapessi quanto vale la lira sterlina. Oh! maladettissimo conto! Caio in Cadice tremila pezze da otto: di queste si fa presto il conto; ma se le ha caricate sei mesi dopo, doverà lucrar tanto meno di quello che ha messo il suo capitale sei mesi prima. Fin qui ci arrivo e capisco la ragione; ma non ho la regola per farlo. Io mi credeva che bastasse, per fare il mercante, saper fare i conti che fanno tutti; e per quello riguarda le lettere, non ho paura. Queste società, questi ragguagli, queste monete m’imbrogliano; eppure ne va della mia riputazione se non lo faccio. Mi proverò, (scrive borbottando)

SCENA XVI.

Rosaura ed il suddetto.

Rosaura. (Vorrei la mia bambola. Mi dispiace che vi sia quell’uomo), (da sè) La mia bambola. (a mezza voce verso Ottavio)

Ottavio. (Non faremo niente). (da sè, scrivendo)

Rosaura. No? Pazienza. (credendo abbia detto a lei)

Ottavio. Eh! Sia maladetto! (dà una botta al tavolino, e getta la bambola in terra)

Rosaura. Oh poverina! (la leva di terra e la accarezza)

Ottavio. (Piuttosto che fare il conto, mi divertirei con questa ragazza). (da sè, osservandola)

Rosaura. Poverina! (accarezza la bambola)

Ottavio. Poverina! che vi è di male?

Rosaura. Me l’avete buttata in terra. (lamentandosi)