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IL GELOSO AVARO 35

Gismondo. Convien rendere il mal acquistato.

Pantalone. Ah! che sieu maledetti. (si getta sullo scrigno)

Gismondo. Se continuate così, non meritate pietà. Vostra moglie tornerà con suo padre.

Pantalone. Andè al diavolo quanti che sè.

Gismondo. Questo è l’amore che avete per vostra moglie?

Pantalone. Sì, ghe voggio ben.

Gismondo. Pagate i vostri debiti.

Pantalone. No gh’ho debiti, no gh’ho bezzi. (stringe lo scrigno)

Eufemia. (Signore, abbiate carità del povero mio marito. Questa passione non la può superare. La gelosia pare che l’abbia superata, ma l’interesse è impossibile). (a don Gismondo)

Gismondo. Dunque non dovrà rendere la roba d’altri?

Eufemia. La renderà; con il tempo la renderà. Fidatevi di me, signore, e non dubitate.

Dottore. (Signore auditore, m’ascolti: io pagherò tutti e quieterò tutti; sagrificherei anche il mio sangue per veder quieta la mia figliuola). (a don Gismondo)

Gismondo. (Ma usure non ne ha da far più).

Eufemia. (Ci baderò ancor io. Non ne farà più).

Pantalone. (Maledetti! i me vol cavar el cuor). (da sè, sopra lo scrigno)

Gismondo. Signor Pantalone, vi si lascia lo scrigno, ma avvertite bene, la prima volta che voi prestate denari con pegno, o senza pegno, con un denaro d’usura, vi farò marcire in una prigione.

Pantalone. Se impresto più un soldo a nissun, che el diavolo me porta via.

Gismondo. Orsù, rasserenatevi. Eccovi vostra moglie.

Pantalone. Sior sì. (tiene lo scrigno avvinto)

Gismondo. Abbracciatela almeno.

Pantalone. No mancherà tempo.

Dottore. Andiamo via da questa camera; qui dentro sento serrarmi il cuore.

Pantalone. Andè dove che volè.

Dottore. Andiamo, Eufemia.