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L'IMPOSTORE 197


stro quel talento medesimo che il cielo vi aveva per vostro bene concesso. Non è vero che stia in mia mano il darvi la libertà; ma quando ancora ciò fosse, ho appresa la massima, che il perdono concesso ai rei la cagion sia de’ nuovi loro misfatti. Dovrete con noi venire dinanzi al vostro e mio Generale: verravvi Brighella ancora, e deciderà il consiglio di guerra.

Dottore. Io intanto ringrazio il signor colonnello della patente che mi voleva dare d’auditore, donandogli, per iscarico di sua coscienza, tutto quello che mi ha mangiato, e consolandomi delle sue bandiere. Posso dire, se pure è vero? (a Ridolfo)

Ridolfo. Sì, pur troppo egli è vero che è un perfido, è un impostore. Arrossisco della mia debolezza, e a voi, caro fratello, chiedo un amoroso perdono.

Pantalone. E i mi abiti? Cossa ghe ne faroggio?

Orazio. Non mi affliggete d’avvantaggio. Tutti quanti qui siete, carnefici mi sembrate, che lacerate il mio cuore.

Pantalone. Ve paremo tanti boia? E vu me pare un bel galiotto. Sior tenente, quei vintiquattro abiti coi quali xe vestia quella zente che vien adesso con ela, i xe roba mia, ghe li ho dadi mi, e noi li ha pagai.

Tenente. Bene, lo dirò al colonnello.

Ottavio. Signor padre, vorrei supplicarvi d’una grazia.

Pantalone. Parla, fio mio, domanda quel che ti voi; siestu benedetto, che ti m’ha avvisà per mio ben.

Ottavio. Vorrei che quei ventiquattro abiti li donaste a me.

Pantalone. Sì, volentiera, te li dono; prego el cielo che i te li paga, e to sorella sarà muggier de sior Fabio.

Ottavio. Sente, signor tenente? Quegli abiti, quelle armi, sono cosa mia.

Tenente. Procurerò che siate soddisfatto.

Ottavio. Ciò non mi preme, poichè alla presenza vostra, di quegli abiti, di quelle armi, faccio un dono ad Orazio; ma siccome egli forse non sarà in istato di poterne godere, questi per sua cagione resteranno liberi al reggimento. In gratificazione dell’amor mio, e di un accidente che rende Orazio al suo reg-