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Settecento. Non bisogna dimenticare che nel giudizio d’uno scrittore la critica di allora concedeva larghissima parte alla moralità: e pesava sui sali di Plauto la severa condanna di Orazio. Il Rabany credette scoprire qualche affinità fra il Goldoni e Terenzio (C. G., Paris, 1896, p. 170), ma affinità di qualità negative. Vero è che più di una volta dai contemporanei e dai posteri udì il buon commediografo chiamarsi O Terenzio dell’Adria, come ripetè anche il Carducci («dimidiato Terenzio» dice sempre ne’ suoi opuscoli miscellanei del 1754 e 55 Stef. Sciugliaga): forse perchè lasciò al rivale abate Chiari il gusto di sbizzarrirsi e paragonarsi con Plauto. In fatti pochi mesi dopo l’abate bresciano raccoglieva la sfida lanciata dal parassito Lisca nella sc. I dell’atto III, e nel prologo della nuova commedia (Marco Accio Plauto, agosto 1 55) esclamava con estro acceso: «Fu Terenzio un artefice, ma Plauto un arsenale». Hanno la loro sorte anche le antonomasie.

Un viaggiatore francese, il Grosley, che fu a Venezia nella state del ’58 e vi conobbe il Goldoni, racconta: «Un Plaute, un Térence, un Molière composent toute sa bibliotheque» (Observations sur l’Italie etc, nuova ed., Londra, 1774, t. II, p. 4); ma queste parole, come fu osservato (v. Maria Ortiz, La cultura del G., estr. dal Giorn. St., 1906), vogliono dire che il Veneziano studiò l’uomo nella natura e non sui libri, e che solo i grandissimi autori ebbe a modello. Ricorda il Goldoni, nelle memorie premesse ai volumi dell’edizione Pasquali, che a Pavia nel ’22 lesse per la prima volta «Aristofane, Plauto e Terenzio» (voil. I, p. 25, della presente ed.): non già a Rimini, sui 13 anni (Mém.es I, ch. 4), poichè delle aggiunte introdotte dal vecchio autore nel testo delle memorie francesi è bene quasi sempre diffidare. Certo quando scrisse più tardi il Terenzio, egli aveva riletto almeno in parte l’autore latino, se non nella edizione francese di Anna Dacier (1713), in quelle veneziane di Luisa Bergalli (st.a dallo Zane tra il 1727 e il ’31, raccolta in un vol. nel ’33, rist. a fra il ’35 e il ’39) e di Nicolò Foruguerri (1748, Occhi: ristampa della superba ed. di Urbino, 1736), versione e originale a fronte. Le notizie biografiche, dalla fonte comune di Elio Donato, lesse in qualche dizionario storico; senza fallo nel Moreri (ed. del 1742-48, che a Venezia vendevasi dal Pitteri), di cui si giovò anche per il Tasso. Ma sopra tutto liberamente inventò, facendo centro del dramma la manomissione del commediografo e innestandovi l’amore per una schiava Creusa, contrastatagli dalla rivalità del suo stesso padrone e benefattore. Le notizie sui costumi del tempo attinse, com’era naturale, dal Lexicon antiquitatum romanarum (1713) del Pitisco (v. pref. alla commedia).

Dall’Introduzione che precedette alle recite autunnali del ’54 parrebbe che i comici fossero già in possesso del manoscritto (v. a pag. 211). Ai 2 novembre di quell’anno Gasparo Gozzi scriveva da Stra, dalla villa di Marco Foscarini, all’amica Marianna Mastraca a Venezia: «Unitamente a me vi ringrazia S. E. Procuratore delle notizie teatrali che qui ci servono di discorso, e massime il Prologo che con molta gentilezza m’avete spedito. Ho caro che il signor Goldoni si faccia onore e abbatta un poco la superbia mal fondata dell’audace N. N.». Intendesi il Chiari. «Già m’immaginava che la compagnia di S. Luca avrebbe recitato male: e tanto più cresce la lode dell’autore. Io, dopo la vostra lettera, sono tutto acceso di voglia di vedere il Terenzio».