Pagina:Goldoni - Opere complete, Venezia 1911, XII.djvu/366

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360 ATTO PRIMO


Fabrizio. Non lo posso saper io?

Anselmo. Ve lo dirò, ma che nessuno lo sappia. Una povera famiglia civile non ha pan da mangiare, le porto questo zecchino. Credo che non vi dispiacerà ch’io lo faccia.

Fabrizio. Oh signor padre, dategliene due, se veramente ha bisogno.

Anselmo. Per ora questo le può bastare. Ma non lo diciamo a nessuno. Parrebbe, se si sapesse, che volessimo far pompa di un po’ di bene che il cielo ci ha dato. Non l’ha da sapere il mondo; basta che si sappia lassù. (parte)

SCENA XV.

Fabrizio e poi Raimondo.

Fabrizio. Questi sono negozi sicuri. Le opere di pietà non impoveriscono mai.

Raimondo. Servo, signor Fabrizio.

Fabrizio. Riverisco il signor Raimondo.

Raimondo. Non vorrei esser venuto in occasione di darvi incomodo.

Fabrizio. Siete sempre padrone in ogni tempo, ma ora, in verità, non ho niente che mi occupi.

Raimondo. Sono bene occupato io nel cuore, nella mente, nell’animo da mille agitazioni, da mille tetri pensieri.

Fabrizio. Che cosa mai v’inquieta a tal segno?

Raimondo. Una moglie trista, pessima, dolorosa.

Fabrizio. Caro amico, non parlate così della vostra moglie. Fate pregiudizio a voi stesso.

Raimondo. Già è conosciuta bastantemente. Ha tutti i difetti, cred’io, che dar si possono in una donna; e poi una certa amicizia ch’ella coltiva, mi vuol far dare nei precipizi.

Fabrizio. E a voi che siete marito, non dà l’animo di farla praticare a modo vostro?

Raimondo. Eh pensate; per la mia soverchia bontà mi ha posto il piede sul collo, e non vi è rimedio.

Fabrizio. Siete bene, per dir il vero, in una deplorabile situazione.