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372 ATTO SECONDO


Anselmo. Eh, il cuor me lo dice. Siete in collera, avete gridato. Per carità, se mi volete bene, palesate a me la cagione del vostro dispiacere, del vostro sdegno. Cari figliuoli, non mi date questo tormento. Sapete quanto vi amo; mi si stacca il cuore.

Costanza. Io, signore, sono la rea, e vi confesserò la mia colpa. Ho prestato cento scudi alla signor’Angiola sopra alcuni diamanti, mossa dalle sue preghiere, e l’ho fatto senza dirlo nè a voi, nè a mio marito. Domando perdono a tutti e due, e vi prometto in avvenire di non prendermi più1 una simile libertà. (piangendo)

Anselmo. Vi è altro, Fabrizio, che questo?

Fabrizio. Poteva dirlo, e non dare a divedere... che ella... (con qualche lagrima)

Anselmo. Vi ha maltrattato per questo? (a Costanza)

Costanza. Mi ha rimproverato... e quando penso... che mai più...

Anselmo. Via, acchetatevi; non piangete per così poco: non vi affliggete per un sì leggiero motivo. Fabrizio non ha tutto il torto a pretendere che vogliate mostrare quest’umile dipendenza da lui, che sapete quanto vi ama, e che non è capace di negarvi una giusta, onesta soddisfazione. Non lo fa egli per li cento scudi; e non lo farebbe, se fossero anche meno sicuri di quel che sono; ma io so il suo dispiacere: è geloso del vostro affetto, e dubita che in faccia di quella donna siate comparsa meno amante di quel che siete. Ma voi, caro figliuolo, per un dispiacere così leggiero, perchè mortificare una consorte che ha per voi tanto amore e tanto rispetto? Non siamo infallibili in questo mondo. Siamo tutti soggetti ad errare, e il cuore si attende nelle operazioni, non l’effetto che ci rappresentano agli occhi. Via, siate men rigoroso. E voi, cara, non vi dolete sì fieramente d’un leggiero rimprovero ch’ei vi possa aver dato. Questo vuol dire non aver mai avuto motivo di dolersi l’uno dell’altro; un picciolo neo vi agita, vi conturba.

  1. Guibeit-Orgeas, Zatta ecc.: mai più.