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LA BUONA FAMIGLIA 413


SCENA XVII.

Angiola, Raimondo e detti.

Angiola. Che novità c’è della roba mia?

Raimondo. Signore, io sono il padrone di casa, e spetta a me il dominio delle cose...

Anselmo. Favorite acchetarvi, signori miei, che qui non siete venuti per mettere a soqquadro la casa nostra. Ecco le gioje, che voi e voi date avete in ipoteca a mio figlio, a mia nuora. Presso di loro non devono e non possono rimaner più. Sono passate nelle mie mani, e dalle mie, salvate le debite convenienze, passeranno alle vostre. Quali esser devono le convenienze che da noi si esigono? I cento scudi? I dugento scudi? No, no, e poi no. Queste maledette gioje hanno seco la mala peste, portatele vosco, non le vogliamo più.

Angiola. (Allungano tutti e due le mani per prendere le gioje.)
Raimondo.

Anselmo. Adagio un poco: il contagio vi fa poca paura, per quel ch’io vedo. La prima convenienza. A chi di voi s’avrebbono a consegnare?

Angiola. Sono di ragione della mia dote.

Raimondo. Io sono marito. Il padrone son io.

Angiola. Non s’è mai sentito, che possa il marito disporre delle gioje della consorte.

Raimondo. Sì signora, si è sentito e si sentirà.

Angiola. Spettano a me, dico.

Raimondo. A me sostengo io che spettano.

Anselmo. Non aspetteranno a nessuno, se fra di voi non vi accomodate.

Angiola. Mi neghereste i pendenti e l’anello da me in questa casa portati?

Raimondo. E non avrò io il gioiello? Non averò i spilloni?

Anselmo. Tutto averete, accomodati che siate fra di voi due.

Raimondo. Per me mi contento della parte mia.

Angioina. E io sarò cheta colla mia porzione.