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414 ATTO SECONDO


Anselmo. Sia ringraziato il cielo. A ciascheduno la quota sua. Eccovi soddisfatti. (mostra le gioje)

Angiola. ) (Allungano le mani come sopra.)
Raimondo.

Anselmo. Adagio, che non sono terminate le convenienze. Ove sono i cento scudi? ove sono i dugento?

Raimondo. Che occorreva che ci mandaste a chiamare?

Angiola. Ci avete fatto venir qui per vederle?

Costanza. Caro signor suocero, liberatemi da un tal fastidio.

Fabrizio. Io non ne posso più, signore. (ad Anselmo)

Anselmo. Flemma anche un poco. (a Costanza e Fabrizio) Non si chiedono da voi nè i cento, nè i dugento scudi: ma cosa che a voi costa meno, e per noi può valere assai più. Volete le gioje vostre? (ad Angiola)

Angiola. Se me le darete, le prenderò.

Anselmo. Voi le volete? (a Raimondo)

Raimondo. Perchè no, signore, nello stato in cui sono?..

Anselmo. Rispondetemi a tuono. La vostra sincerità può essere il prezzo del ricupero delle gioje vostre. Signor’Angiola, che faceste, che diceste voi nella camera di mio figliuolo?

Angiola. So che volete dire. Perdonatemi, signor Fabrizio, se trasportata dalla miseria, ho usato con voi dell’arte per ricuperar le mie gioje. Consolatevi voi, signora Costanza, d’aver un marito il più savio, il più amoroso del mondo; e perdonatemi, se per un po’ di spirito di vendetta, per aver voi manifestato lo sborso fattomi dei cento scudi, ho tentato l’animo dello sposo vostro: cosa che ora m’empie di confusione, e mi sarà di perpetuo rimorso al cuore.

Costanza. Credetemi, l’ho palesato senza intenzione di farlo.

Fabrizio. E voi. Costanza mia, avete potuto di me pensare?...

Costanza. E voi, caro consorte, avete giudicato che il signor Raimondo...

Raimondo. No, amico, non fate così gran torto alla moglie vostra. Ella mi ha ricevuto per la insistenza mia di voler seco