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LA DONNA STRAVAGANTE 239
Dell’amicizia vostra almen non mi private.

Siami permesso il dirvi, che alla nipote umano
Esser vogliate, ad onta di un cuor barbaro e strano;
Ch’ella, se tal fu meco, lo fu per mia sventura.
Altrui sarà quell’anima più docile, men dura.
Fu meco sconoscente, m’insulta, mi martella;
Giurato ho di lasciarla; ma dirò sempre: è bella, (parte)

SCENA II.

Don Riccardo, poi donna Rosa.

Riccardo. Grazie al mio buon destino, che da follia d’amore

Tennemi in guardia sempre colla ragione il core.
Ogn’altro mal che provasi, se dal destin proviene,
La sofferenza apprendere dalla virtù conviene.
Ma i procacciati mali di un misero talento
Dal mondo non può esigere1 nemmen compatimento.
Io merto esser compianto, io che per mia sventura
D’una famiglia ho il peso, queste due donne ho in cura;
Ma non andrà gran tempo, che fuor da questo tetto
Vorrò vederle entrambe, fosse anche a lor dispetto.
Ecco a me la minore, men dell’altra orgogliosa.
Rosa. Signor, voi mi lasciaste inquieta e sì dogliosa.
Che fui da quel momento finor fuor di me stessa.
Da mille doglie afflitta, da mille dubbi oppressa.
L’unico ben ch’io bramo, è l’amor vostro, e questo
Togliemi senza colpa il mio destin funesto.
Riccardo. No, figlia, non iscemasi il mio sincero affetto.
Ebbi, non so negarlo, di voi qualche sospetto;
E alfin la diffidenza non condannar bisogna,
Se d’altri in me la genera l’inganno e la menzogna.

  1. Così l’ed. Pitteri. Le edd. Guibert-Orgeas, Zatta e altre credettero di correggere: non puon esiger ecc.