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la piccolezza della commedia le concede alcunchè di singolarmente gentile, l’aria di un ninnolo. Tuttavia, ninnolo sino a un certo punto: il Goldoni, anche per celia scolpiva caratteri, era la sua natura, non ne poteva fare a meno. Il tipo dell’avaro. Don Ambrogio, e di meravigliosa bellezza...» (Giornale d’Italia, 1 aprile 1910).

Non sempre gli elogi andarono alle stelle. Qualche critico del buon tempo antico che a sentir discorrer d’avari metteva tosto sulla bilancia l’Aulularia e l’Avare parlò tutt’altro linguaggio. «Era viva in noi l’attesa — scriveva la Bibliothek der schönen Wissenschaften del 1763 — com’egli, dopo due grandi maestri, quali Plauto e Molière, avrebbe trattato questo carattere e godevamo nell’idea di vedere un Goldoni in gara con quelli e talvolta forse superarli; ma come andò delusa la nostra speranza! Il lavoro è in un atto e checchè dica l’autore nella sua prefazione, è certo tra i suoi mediocri, se non tra i cattivi». Riassunto l’argomento, concludeva: «Volgare la favola e mediocre l’esecuzione!» (Vol. X, p. 38, cit. dal Mathar a p. 36). «Lavoro sbagliato» lo disse un gazzettiere tedesco, rimproverando al Montucci d’averlo accolto nella sua Scelta (Allg. Literatur-Zeilung, nov. 1829, col. 995). Un critico dei nostri giorni non ritiene necessaria la presenza dell’avaro in questa commediola e ancor meno giustificato l’onore che da lui s’intitoli (Ettore Piazza, Il tipo dell’avaro in Plauto e nei principali suoi imitatori, Foligno, 1887, p. 15). Sempre in cerca della morale, Pietro Schedoni approva ciascun carattere, non però quello dell’avaro che «fine contrario allo scopo drammatico... resta della sua perversa cupidigia lietissimo» (Principi morali del teatro, ecc. Modena, 1828, p. 76). Anche il Landau, che pur pretende di seguire ragioni d’arte nelle sue critiche, rileva la pretesa immoralità del lavoro (C. G., Vossische Zeitung. Berl., 24 febbr. 1907).

L’Avaro, rappresentato, se l’edizione Pasquali non erra, nel 1756, è oggi tra le commedie del Goldoni vive ancora sulle scene. L’aveva l’anno 1828 nel suo repertorio, fin troppo goldoniano secondo la gazzetta I teatri (30 dic. 1828), la Ducale di Modena e l’esegui al Teatro Re di Milano. Il brutto uso di lasciar via il nome degli autori negli elenchi di lavori recitati non permette di attribuire l’omonimo lavoro dato all’Arena del sole nel 1864 dalla Comp. Aliprandi Papadopoli senz’altro al Nostro (Cosentino, L’Arena del sole, Bologna, 1903, p. 119). Nel 1910 l’Avaro, ridotto in veneziano, fu degnamente interpetrato da Emilio Zago, che l’anno dopo potè farlo conoscere anche ai connazionali dell’Argentina. E n’ebbero gran lode il poeta e l’artista (cfr. Giornale d’Italia e Patria degli Italiani di Buenos Ayres del 23 maggio 1911). Il 9 aprile del 1910 l’esegui la Compagnia del Teatro Metastasio [Teatro a sezioni] di Roma, protagonista Achille Vitti. «La commedia che tutti vedevano sulla scena per la prima volta fece furore: — riferiva il giorno dopo Domenico Oliva (loco cit.) — io stesso non avrei mai pensato potesse destare nel pubblico tanto compiacimento: avevo torto: dovevo pensare che molte tra le commedie del Goldoni acquistano sulla scena un rilievo impreveduto: il Goldoni scriveva unicamente pel teatro: aveva il teatro nel cervello». Di nuovo a Roma, in un altro Teatro a sezioni [Quattro fontane] venne ripreso nel novembre dell’anno dopo, protagonista Cesare Dondini. Tra gli attori che impersonarono con felice intuito la figura di Don Ambrogio furono i caratteristi