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L'AMANTE DI SÈ MEDESIMO 447
Conte. Bravo! non sai, meschino, dove il denar sen va?

Alberto. Se nol gh’ha un vizio al mondo, povero desgrazià!
Frugnolo. Questo non è gran cosa. Non troverà un lacchè,
Che sia, gliel’assicuro, men discolo di me.
Non son di quei che vadano sì spesso all’osteria.
Conte. Ma ci vai qualche volta.
Frugnolo.   Così per compagnia.
Alberto. E nol gh’ha un vizio al mondo. Tiolè, sior virtuoso.
(rimette la chicchera sul tondino)
Frugnolo. E non mi dona niente? So pur ch’è generoso.
Alberto. Sì caro, un’altra volta. Vado a sentir la dama. (al Conte)
Conte. Poi venitemi tosto a dir quel ch’ella brama.
Alberto. Se de vu la me parla?
Conte.   Sappiate regolarvi.
Alberto. Possio prometter gnente?
Conte.   Sì, ma senza impegnarvi.
Alberto. Amigo benedetto, tolè sto mio conseggio:
Se ve volè taccar, tacchève al vostro meggio.
Le donne maridae le s’ha da lassar star;
Co le vedue no digo, ma ghe xe da pensar.
Per mi se anca la fusse un tantinin più brutta,
Piuttosto che una vedua, me piaseria una putta.
Ma voleu far l’amor? Felo come se deve.
O sia vedua, o sia putta, sposela, e destrigheve. (parte)

SCENA 111.

Conte e Frugnolo.

Conte. (Gran cosa! tutto il mondo vorrebbe maritarmi.

Ci penserò ben bene innanzi di legarmi). (da sè)
Frugnolo. (Non la finisce mai di ber la cioccolata?)
Conte. (Perchè non può trattarsi la donna maritata?
Servirla onestamente? Oh, madama non è
Nata una gentildonna; che cosa importa a me?)
Tieni. (rimette la chicchera sul tondino)