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126 ATTO SECONDO
E intendono di esigere affetti e convenienze

A suono di disprezzi, a suon d’impertinenze.
Lucio. Oh, io ve lo protesto, non soffrirei d’intorno
Una indiscreta simile nemmeno un solo giorno.
Berenice. Tutti, signor, non pensano come pensate voi.
Don Lucio è cavaliere: conosce i dritti suoi.
Lucio. (Si pavoneggia.)
Berenice. Da me si fa giustizia; e se mi onorerete,
Fra quanti mi frequentano, il vostro luogo avrete.
Lucio. Appunto son venuto per tempo a incomodarvi
Pria dell’ora appuntata; prima per ringraziarvi
Dell’onor che mi fate di esservi commensale,
Poi per saper se gli ospiti sono di grado eguale.
Berenice. Oh signor, perdonate, al mio dover non manco;
Non esporrei don Lucio d’un ignobile al fianco.
Lucio. Dirò, non è ch’io sdegni pranzar coi cittadini,
Coi dottor, coi mercanti, se stan nei lor confini;
Ma trovansi di quelli che prendonsi licenza
Di trattar coi miei pari con troppa confidenza.
Voglio sfuggir gl’impegni, perciò v’interrogai.
Berenice. Altri che cavalieri da me non vengon mai.
Lucio. Io tollerar non posso quelle conversazioni,
Ove i plebei si ammettono con titol di buffoni.
Costoro impunemente, senza temer pericolo,
Fino il padron di casa por sogliono in ridicolo.
Berenice. Voi avete pensieri sublimi e ragionati.
Così parlano gli uomini che son bene allevati.
Lucio. E se averò figlioli, allor ch’io mi mariti,
Saran colle mie massime nell’animo nutriti.
Berenice. Pensate di accasarvi?
Lucio.   La convenienza il chiede.
Al feudo che mi onora, vuò provveder l’erede.
Berenice. Lo trovaste il partito?
Lucio.   Ancor non lo trovai.
Berenice. Caro signor don Lucio, voi meritate assai.