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142 ATTO TERZO
Lucio. L’ho detto, e posso prendermi con lei tal confidenza.

Filiberto. Questa è una confidenza che i limiti sorpassa.
Lucio. Fra lei e me nessuno può saper quel che passa.
Filiberto. Signora, che interessi seco avete in segreto?
Berenice. Eh via, don Filiberto, vi prego di star cheto.
Filiberto. Favorite di dirlo, che lo vogliam sapere.
Claudio. Si tace, se una dama comanda di tacere.
Filiberto. Quando una donna tace, vi è sempre il suo mistero.
Berenice. Voi vi piccate a torto.
Lucio.   Io saprò dire il vero.
Lo dico in faccia a tutti.
Berenice.   Direte una pazzia?
Lucio. Dirò che Berenice dev’esser moglie mia.
Filiberto. S’ella è così, signora, la mia pretesa è insana, (s’alza)
Claudio. S’ella è così, signora, la tolleranza è vana. (s’alza)
Berenice. Voi mentite, don Lucio.
Lucio.   Un mentitor son io? (s’alza)
Si fa cotale insulto, cospetto! ad un par mio?
È una donna che il dice, ma se un uom fosse quello...
Filiberto. Io per lei lo confermo.
Lucio.   La spada ed il cappello.
(placidamente a Filippino)
Berenice. Servite il cavaliere. (a Filippino)
Filippino.   Subito, immantinente.
Lucio. Mi farò render conto del tratto impertinente.
Filippino. La spada ed il cappello. (dà tutto a don Lucio)
Lucio.   Andiam. (a Gamba, e parte)
Berenice.   Che bel trattare!
Gamba. Ed io, povero gramo, perduto ho il desinare. (parte)
Isidoro. Son finite le risse?
Berenice.   Or resteremo in pace.
Isidoro. Adunque alla salute di quel che più vi piace.
Pippo. Bravo, don Isidoro, questo brindisi è mio.
Son io quel che le piace: alla salute di io.
È rima, o non è rima?