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26 ATTO PRIMO
Stendo al polso la mano; parmi più non sentirlo.

Corro, così tremante, fin dove non so dirlo.
Acqua, gridando andava; chi mi soccorre? io spiro.
Recanmi alfin dell’acqua; alfin bevo, e respiro.
Ma che? quel dì fatale l’epoca è sventurata
Di tai barbari assalti, ch’io provo alla giornata.
Ma la notte, la notte è il mio crudel tormento.
Quando la sera imbruna, s’accresce il mio spavento.
Parmi che mi si stacchino le viscere dal petto;
Sei, sette volte almeno forza è balzar del letto.
E se mi prende il sonno, ahi che dormir funesto!
Veggo leoni e demoni, e con tremor mi desto.
A tavola, al teatro, in un festino, al gioco,
Sentomi questa fiamma salire a poco a poco;
E funestar temendo altrui colla mia morte,
Mi forza un rio timore fuggir da quelle porte.
Niente mi consola, ogni piacer mi è odioso,
Son diventato agli altri, e a me stesso noioso.
Ah voi, signor, porgete a tanto mal ristoro,
O questo dì non passa, ch’io mi consumo e moro.
Bainer. Altro a narrar vi resta?
Guden.   Son cento i miei malori,
Ma vi narrai per ora i sintomi peggiori.
Se male io mi spiegai, se il labbro mi tradì,
Ritornerò da capo.
Bainer.   No, no, basta così.
V’intesi a sufficienza. Di qual paese siete?
Guden. Soccorretemi prima; poi chi son lo saprete.
Bainer. Sì, vi soccorrerò; ma per un tal malore
Siate sicuro intanto, signor, che non si more.
Guden. Come? Se in dieci mesi sento morirmi ogn’ora?
Bainer. Moriste tante volte, e siete vivo ancora?
Son flati, son vapori, son convulsioni interne;
Son mali che spaventano chi teme, e non discerne.
Sentite il buon tabacco. (gli offre del tabacco)